repubblica-matti200Sabato 20 febbraio 2015 presso l’auditorium Paolo Rosa, al museo laboratorio della mente (piazza s. Maria della pietà – Roma) è stato presentato il libro di John Foot (La repubblica dei matti, edito da Feltrinelli). Insieme all’autore hanno partecipato alla discussione Gianluigi Di Cesare, Giuseppe Ducci, Vinzia Fiorino, Renato Foschi. Ha moderato il dibattito Pompeo Martelli, direttore del museo.

Sul Forum vogliamo continuare a seguire il dibattito immediatamente accesosi attorno a questa pubblicazione. Iniziamo con il parere di Peppe Dell’Acqua a Giorgio Bignami.

Caro Giorgio,

con quasi un mese di ritardo rispondo alla corrispondenza relativa a John Foot. Ho intanto avuto il tempo di leggere il libro, di conoscere l’autore e di presentare libro e autore a Trieste il 14 gennaio scorso.

Che dire?

Il lavoro che Foot ha fatto è davvero molto esteso e in qualche punto riesce a entrare in questioni centrali e per noi molto importanti. E’ uno strumento utile per mettere in fila fatti, avvenimenti, situazioni  che permettono di riattraversare o di conoscere per chi è completamente a digiuno una storia di cinquant’anni e gli snodi anche aspri e, da molti mal compresi, che abbiamo dovuto attraversare. La dimensione più narrativa che storica, poi,assieme all’incredibile vastità della bibliografia tesse un ordito di sicura utilità.

Ho provato meraviglia nel ritrovare, spesso ce ne dimentichiamo, la grande spinta al cambiamento che in quegli anni abbiamo vissuto e la molteplicità dei luoghi e dei soggetti. Veramente tanti.

I più giovani che hanno letto, mi dicono, hanno avuto modo di scoprire e “conoscere” personaggi di cui avevano solo sentito parlare.

E’ altrettanto sorprendente ritrovare l’evidenza dei successi, dei fallimenti, delle resistenze, dei conflitti interni al “movimento”, delle feroci resistenze di un mondo accademico che continua, ancora oggi, a non essere capace di cogliere il respiro di quanto è accaduto.

Questo e altro nelle intenzioni di John Foot che non nasconde un sincero stupore per la vastità del cambiamento che ha potuto indagare e scoprire e, a dispetto degli anglofili nostrani, esprime apprezzamento intelligente e documentato. Non è poca cosa ritrovare passaggi così cruciali e determinanti: l’urgenza, l’etica, l’impegno politico. Leggere di amministratori di grande spessore. Rasimelli che sostiene contro tutti e tutto il lavoro di Carlo Manovali (ve lo ricordate?) e il manicomio di Perugia che chiude, la partecipazione popolare, le assemblee pubbliche tesissime, “Le fortezze vuote”, il bel film di Serra. Mario Tommasini, l’incarnazione del gramsciano “ottimismo della volontà”, che affronta scuole speciali, istituti per minori, carcere, il manicomio di Colorno, a mani nude si direbbe, con una coinvolgente capacità di agire. La scelta di campo del giovane “democristiano” Zanetti che affronta con intelligenza e rigore la scommessa di amministrare il cambiamento più radicale e rischioso. E duraturo. Per dire solo di Perugia, Parma e Trieste, e già si fa torto a Bruno Benigni e ad Agostino Pirella e alla fatica di quell’altra impensabile chiusura, a Sergio Piro e le sue impossibili imprese napoletane, e ancora.

Metà del libro è dedicato a Gorizia, non poteva essere diversamente. Il luogo e il momento dell’inizio. Dove tutto sembra fondarsi. E non è stato che un inizio… la lunga marcia attraverso le istituzioni comincia da lì. Malgrado tutto, continua. Leggetelo e poi tornate a leggere il lavoro vastissimo di Basaglia su quel capovolgimento. Su quella frattura non più ricomponibile. (Io lo sto facendo.)

Del libro non ho potuto apprezzare una sorta di teorema, mai dimostrato: tutto quello che è accaduto lo si dovrebbe in massima parte al carisma di Franco Basaglia, alla sua forza comunicativa, al rilievo mediatico, a fortunate congiunture politiche. L’enfasi sulle aggettivazioni ricorre a dimostrare il teorema. Chi lavora con Basaglia, o ne condivide il pensiero e le pratiche, diventa “basagliano”, dove per basagliano s’intende il seguace di un guru. I basagliani si abbandonano “a eccessi ideologici, a esasperazioni, a dichiarazioni pericolose e incendiarie, a semplificazioni, a dogmatismi, a settarismi, a dispute feroci…” Spesso parlano per slogan. Rischiano sempre di essere ideologici. In realtà la dimostrazione del teorema non riesce mai. Foot non può non riconoscere le radici scientifiche, la forza dell’agire critico, l’urgenza delle pratiche trasformative. Tuttavia quelle parole e quegli aggettivi reiterati, finiscono per dare una dimensione talvolta folcrorica e colorata, come per altro fanno spesso gli inglesi quando parlano, anche con affetto e ammirazione, del nostro paese.

Avrebbe potuto con più efficacia  affrontare le questioni scientifiche, disciplinari, etiche. Il capitolo sull’antipsichiatria non chiarisce molto. Crea molti fraintendimenti. Foot stesso confessa di aver fatto fatica a mettere ordine nella friabilità della materia e si dice molto insoddisfatto del risultato. Anche la legge 180 avrebbe preteso maggiore approfondimento.  Alcuni passaggi confondono e quasi sembrano ridurre a vuoti atti burocratici tutto lo spessore e il travaglio di quella legge.

Nel valorizzare in chiave polemica il lavoro di Foot, alcuni psichiatri che mai hanno prestato attenzione al cambiamento lamentano l’assenza di storici italiani nella ricerca sulla questione del cambiamento. Basterebbe pensare al testo della Babini “Liberi tutti”  e perchè no al bel lavoro di Oreste Pivetta “Il dottore dei matti”, per smentire questa affermazione se non si vuole tener conto della cospicua quantità di pubblicazioni, di libri, di memoriali. E ancora materiali fotografici, audio, video e filmici.

È indubbiamente vero che manca  un’articolata e organica riflessione su quanto è accaduto. Il conflitto persistente intorno alla “questione psichiatrica nel nostro paese, ha reso difficile per chiunque riflettere e cogliere la serietà e la profondità della posta in gioco. I tentativi fatti sono stati sempre immediatamente collocati in un pro e in un contro senza mai cogliere la necessità di far crescere intorno a questa questione un pensiero critico e libero dalle certezze, dalle prigioni delle scienze biologiche, mediche, psichiatriche.

Il sottotitolo del libro recita: “Storia della psichiatria radicale” . Bisognerebbe interrogarsi, e ne ho parlato con Foot, sul significato dell’aggettivazione radicale accostato al sostantivo psichiatria. Avrei preferito un altro sottotitolo. La psichiatria non può essere radicale (né democratica). Il paradigma psichiatrico ridotto alla sua radicalità cosa dovrebbe essere? Non riesco a immaginarlo.

Angela Davis, filosofa e politica americana, scrive che “Radical simply means grasping things at the root” (Radicale significa semplicemente cogliere le cose alle radici).

Mi piacerebbe che il libro di Foot ci aiutasse finalmente a grattare con un po’ più di accanimento e curiosità intorno alle radici. Alle parole che fondano il cambiamento.

La smemoratezza, male endemico del nostro tempo, ci costringe al luogo comune, alla piattezza, all’abbandono di qualsiasi tensione critica, credo che il libro di Foot proprio perché ci costringe a ricordare, può aiutarci a ritrovare l’imperdibile radicalità del discorso.

Oggi credo sia proprio necessario essere radicali.

Foot è entusiasta dell’esperienza fatta, ha raccolto materiali che lo spingono a riprendere il discorso. Promette un secondo volume e la pubblicazione in inglese  de “L’istituzione negata”. Due buone cose. Le aspettiamo e ci saranno utili.

Peppe Dell’Acqua

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