Di Allegra Carboni
May You Live In Interesting Times è un’espressione inglese che ha assunto notorietà lo scorso anno perché eletta a titolo della Biennale d’Arte di Venezia. L’origine della frase è dibattuta e molti ritengono che provenga da un antico anatema cinese, ma non ci sono evidenze a riguardo. Si pensa però che l’augurio di vivere in tempi interessanti sia in realtà da intendersi come una maledizione: i tempi interessanti sono quelli difficili, di incertezza, di crisi, di disordine; i tempi non interessanti sono invece pacifici, per quanto noiosi, tranquilli.
Nelle ultime settimane non ho fatto altro che pensare ai tempi maledettamente interessanti in cui ci ritroviamo a vivere. Tempi ignoti, di grande dolore, di preoccupazione. Tempi che ci impediscono di fare previsioni.
Un importante e atteso appuntamento quest’anno è fissato per il martedì dopo il primo lunedì di novembre, come accade per tradizione dal 1845: le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Il 2020 doveva essere l’anno del giudizio su Donald Trump, mentre con ogni probabilità sarà ricordato dai posteri per ben altro. Le conseguenze dell’epidemia sulla campagna elettorale e sulle elezioni di novembre ovviamente non le conosco e non ho le competenze per provare ad azzardare gli effetti che Covid-19 sortirà sulla politica statunitense. Ho letto sul New Yorker un pezzo interessante che si sviluppa attorno all’interrogativo: la pandemia Coronavirus cambierà davvero il nostro modo di pensare? Adam Gopnik sostiene che chi si era ormai convinto, come Bernie Sanders, dell’assoluta necessità di un sistema sanitario nazionale e di una socialized medicine, ne uscirà da questa pandemia con una convinzione ancora più rafforzata. Ma d’altro canto chi invece già prima non ne era affatto convinto, potrebbe ora obiettare che, nonostante i sistemi sanitari pubblici giudicati eccellenti, sia Francia che Italia registrano oggi a causa dell’epidemia tassi di mortalità pro capite peggiori di quelli statunitensi.
La campagna elettorale e le elezioni presidenziali negli Stati Uniti mi offrono però l’opportunità di riflettere su un’altra cosa. Premetto che fin dall’inizio, quando le primarie democratiche erano ancora molto affollate, ho fatto il tifo per Bernie Sanders. E confesso che tuttora, visti i very interesting times in cui viviamo, continuo a fantasticare sul fatto che, per una serie di fortunati o sfortunati eventi, Sanders possa ritrovarsi a sfidare Donal Trump tra qualche mese. Tra Biden e Sanders la competizione è in realtà definitivamente terminata e non c’è una partita di ritorno. Sanders ha sospeso la sua campagna elettorale, ma il suo nome continuerà a comparire sulle schede e formalmente resta ancora in corsa. Questo non significa che può tuttora vincere le primarie e battere Biden, ma che raccogliere altri voti e accumulare delegati può far aumentare il peso specifico delle sue proposte al momento della stesura del programma dei democratici: un’eventuale maggiore rappresentanza dei suoi sostenitori potrebbe certamente tornargli utile nel corso delle future discussioni politiche con Biden e con il resto del partito.
Biden e Sanders sono l’espressione di due correnti ben distinte all’interno del Partito Democratico, così come sono visibilmente diversi i segmenti elettorali su cui entrambi sanno di poter fare leva. Biden, per esempio, è più popolare fra gli afroamericani, mentre è risaputo che Sanders riscuote grande successo fra gli studenti e in generale sulla fascia più giovane della popolazione che si reca alle urne.
Ho deciso di spulciare fra le proposte elettorali di Biden e Sanders in tema di sanità e nello specifico di salute mentale: l’ho fatto quando non solo Sanders era ancora in corsa, ma sembrava addirittura favorito (poi io sono stata lenta e le cose hanno preso un’altra piega).
Medicare for All & ObamaCare
Il piano di Sanders, quello per cui spinge da anni, è di creare un sistema sanitario nazionale che garantisca a ogni individuo residente negli Stati Uniti, inclusi gli immigrati irregolari, di beneficiarne. Una proposta fondata sull’egualitarismo, che Treccani delinea come la concezione politico-sociale tendente a realizzare un’uguaglianza de facto, accanto all’uguaglianza de iure sancita dalle leggi. Sanders propone di investire più soldi in medici, infermieri, specialisti di salute mentale, dentisti e altre figure professionali che forniscono servizi alle persone e migliorano le loro vite. Il punto da tenere a mente: specialisti di salute mentale.
Dando invece un’occhiata fra le proposte di Biden, sempre in tema di sanità pubblica, si legge dell’intenzione di raggiungere la parità in salute mentale (espressione tutta da decifrare) e di espandere l’accesso ai servizi di salute mentale, rimarcando l’impegno già profuso in qualità di vicepresidente nel rendere effettiva l’applicazione di legge federali in tema di salute mentale e nell’eliminazione dello stigma che vi aleggia attorno (proposta lodevole quest’ultima, vista la poca conoscenza sul tema e il generale scarso interesse a riguardo).
Questa è l’America
Perché mi focalizzo sul tema della salute pubblica e nello specifico sulle proposte che riguardano la salute mentale? Facciamo un passo indietro. Vi racconto una vicenda personale strettamente intrecciata con la storia della mia città.
Sono nata e cresciuta a Trieste e da poco più di un anno collaboro con il Forum Salute Mentale. L’8 marzo 2019 (ricordo la data precisa per una serie di fortunate coincidenze) durante una riunione di redazione nella cornice del Parco di San Giovanni ho conosciuto Kerry Morrison, che per oltre vent’anni ha ricoperto il ruolo di direttrice esecutiva della Hollywood Property Owners Alliance. All’inizio del 2019 Morrison ha rassegnato le dimissioni per dedicarsi alla situazione di crisi che grava sulla California e nello specifico sul quartiere in cui risiede: l’emergenza dei senzatetto a Hollywood.
Di recente ho letto con attenzione Questa è l’America, l’ultimo libro del giornalista Francesco Costa. Ho imparato molte cose, alcune sulla California, uno Stato dove ci sono zone in cui l’economia cresce a tassi annuali pari a quelli cinesi, tra il 6 e l’8 per cento, e dove Apple ogni anno contribuisce al bilancio per oltre 200 miliardi di dollari, più o meno l’intero prodotto interno lordo della Grecia[1]. Costa però racconta anche le storie dei senzatetto californiani, vittime di un’economia in espansione che li ha lasciati per strada: pendolari costretti a dormire in macchina nei grandi parcheggi di San Francisco durante i giorni feriali, ma anche studenti di Berkeley che si ritrovano senza un tetto sopra la testa dopo aver contratto mutui spropositati per pagare le rette universitarie[2].
La scelta di Kerry Morrison ha molto a che vedere con questa storia. I cannot walk down Hollywood Boulevard and assume this is the best we can do for people in the United States of America scriveva Kerry sul suo blog un anno fa. Nella sola città di Los Angeles, secondo i dati aggiornati al 2019, si contano più o meno 35 000 senzatetto, che diventano 60 000 se si prende in considerazione l’intera contea, segnando un significativo aumento rispetto a quanto si registrava nel 2018 (del 12 per cento nella contea, del 16 per cento nella sola Los Angeles)[3]. Costa racconta bene come si è arrivati a tutto questo, e l’invito non può che essere quello di comprare il libro per comprendere almeno in parte le radici di quella povertà che nel 2017 porta Kerry Morrison a Trieste. Perché qui? Serve, ahimè, fare un altro passo indietro, ma vi assicuro che è importante.
Il direttore editoriale del Forum Salute Mentale è Peppe Dell’Acqua, psichiatra, per quasi vent’anni a capo del Dipartimento di salute mentale di Trieste, dove nel 1971 aveva iniziato a lavorare con Franco Basaglia. A maggio dello scorso anno sono andata a vedere Peppe a teatro, nello spettacolo (tra parentesi) La vera storia di un’impensabile liberazione, diretto da Erika Rossi e con Dell’Acqua e Massimo Cirri. La pièce è poi diventata un libro, un dialogo tra Dell’Acqua e Cirri che ricostruisce quel capitolo di storia che porta all’approvazione in Parlamento della legge 180, Norme per gli accertamenti ed i trattamenti sanitari volontari e obbligatori (conosciuta come legge Basaglia), il 13 maggio 1978, poi inserita nelle legge 833 dello stesso anno, che istituisce il Servizio sanitario nazionale. Dell’Acqua racconta che chiudere l’ospedale psichiatrico significa riversare nella città la miseria del manicomio, dunque serve inventarsi per la città una soluzione alternativa al manicomio, mai sperimentata fino ad allora, in nessuna parte del mondo: chiamano quella soluzione Centro di salute mentale, una struttura aperta ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette.
Questo vogliono creare a Los Angeles: un Centro di salute mentale comunitario. L’esperienza basagliana ha fatto storia e nel 2017 ha portato una delegazione di funzionari statali e membri di organizzazioni no-profit di Los Angeles a Trieste, partiti essenzialmente con due interrogativi: come funzionano i servizi a Trieste, una città che ha all’incirca 200 000 abitanti, e come replicarli in California, nello specifico a Los Angeles, dove si contano 4 milioni di abitanti, addirittura 10 milioni se si prende in considerazione l’intera contea. Come potrà mai un sistema che si basa sulla tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e della collettività e sull’accesso universale all’erogazione equa delle prestazioni sanitarie funzionare a Los Angeles? Nel 2017 Allen Frances, psichiatra e professore emerito presso il Dipartimento di Psichiatria e Scienze comportamentali della Duke University School of Medicine di Durham, North Carolina, ha detto che gli Stati Uniti sono il posto peggiore al mondo per avere una malattia mentale, mentre Trieste è il migliore: Trieste è il migliore perché ha a cura le persone con disturbi mentali e le tratta come persone. Proprio su iniziativa di Frances è nato il progetto Trieste in the United States, e il motivo del viaggio di Kerry e del resto della delegazione californiana.
La comunità terapeutica
Ma la storia di Trieste e di Basaglia in realtà ha pochissimo a che fare con psicofarmaci e camici bianchi e molto con un radicale cambiamento delle organizzazioni dei servizi. Dell’Acqua parla di un’organizzazione che cura: bisogna innanzitutto disporre un progetto e farsi portatori di un determinato tipo di cultura. Senza solide basi culturali, investire ingenti somme può risultare addirittura dannoso, se il denaro è stanziato per aumentare i posti letto o per costruire altri ospedali psichiatrici. Il cardine della rivoluzione portata avanti da Basaglia vede l’abbandono dell’ospedale e la costruzione di possibilità all’interno della comunità, l’azione concreta sulle relazioni e sui luoghi di vita delle persone, il coinvolgimento dei familiari. Ma anche una riduzione dei tempi del trattamento nella fase acuta, un accesso più facile ai percorsi riabilitativi e di ripresa, una diminuzione del numero e dell’intensità delle ricadute, un minore utilizzo di farmaci, un ridotto rischio di stigmatizzazione ed esclusione.
Il tema è complesso, ma quello che vi ho descritto non è un progetto utopico o una bella idea che tale è e tale resta: tutto questo esiste già e funziona (parecchio bene, a dirla tutta). All’epoca lo spiegò in modo efficace Michele Zanetti, Presidente della Provincia di Trieste dal 1970 al 1977 e grande sostenitore di Basaglia: «Se qui a Trieste l’Ospedale psichiatrico può chiudersi, sono però moltiplicate le attività all’esterno. Nel solo 1976 abbiamo fatto più di cinquantamila interventi tecnici sanitari di sostegno nelle case, nelle famiglie, nei quartieri di Trieste. Quindi, la pericolosità viene risolta da una diversa maniera di affrontare i problemi della salute di tutti quanti.»
Quanto costa risparmiare sulla salute mentale?
La salute mentale rappresenta certamente una delle maggiori sfide per la sanità pubblica. Come ho già scritto per le pagine del Forum Salute Mentale un anno fa, garantire un servizio sanitario equo ed efficiente è di fatto un modo per contrastare la povertà. Non bisogna dimenticare che, come sostiene l’OMS, «le disuguaglianze nella salute hanno origine dalle condizioni sociali in cui gli individui nascono, crescono, vivono, lavorano e invecchiano, ossia dai cosiddetti determinanti sociali della salute. Intervenire su tali determinanti risulta essenziale per creare società eque, e costituisce per tutti i decisori un imperativo etico». Quindi, in parole povere, investire sulla salute, in particolare sulla salute mentale, equivale a risparmiare sui costi della spesa sociale. A pensarci sembra paradossale, ma davvero risparmiare sulla salute mentale costa moltissimo: la mancanza di prevenzione e di azioni tempestive è indissolubilmente associata a interventi costosi e prolungati nel tempo che si impongono prepotentemente sulla vita degli individui che li necessitano.
E negli Stati Uniti?
Ron Powers, scrittore, Premio Pulitzer per il giornalismo d’inchiesta nel 1973, racconta la miseria e lo strazio, il caos e l’orrore che ha visto nei reparti psichiatrici statunitensi nel suo ultimo libro Chissenefrega dei matti, uscito in Italia nel 2018. Il titolo si rifà a una frase apparsa in uno scambio di e-mail, poi rese pubbliche, scritta da Kelly Rindfleisch in riferimento alla malattia mentale: no one cares about crazy people. All’epoca Rindfleisch ricopriva il ruolo di vice capogabinetto di Scott Walker, Amministratore della contea di Milwaukee, Winsconsin dal 2002 al 2010, poi Governatore del Winsconsin dal 2011 al 2019 e per breve tempo anche candidato alle primarie repubblicane per le elezioni presidenziali del 2016. Lo scambio di e-mail è successivo allo scoppio di uno scandalo che coinvolgeva l’ospedale della contea e nello specifico la struttura di salute mentale: si trattava di accuse sulla morte per inedia di un paziente e su episodi di violenza sessuale, che preoccupavano Walker per i possibili effetti sulla campagna elettorale. Insabbiare quanto accaduto e ridurre i danni al minimo deve però essere stato più difficile del previsto, ma per rassicurare un collega Rindfleisch invitò a non preoccuparsi, che tanto no one cares about crazy people.
Il punto è che Rindfleisch ha ragione. Accade che i due figli di Ron, Dean e Kevin, si ammalino entrambi di schizofrenia e che la famiglia Powers inizi a vivere un vero e proprio calvario. I Powers visitano i luoghi delle psichiatrie, incontrano persone cui davvero poco frega dei matti e l’atteggiamento prevalente con cui si interfacciano è di indifferenza e negazione. Non da parte di tutti, sia chiaro, ma da una grande maggioranza numerica. Kevin Powers è morto suicida nel luglio del 2005: si è impiccato nel seminterrato di casa, una settimana prima del suo ventunesimo compleanno.
Una lunga storia
Negli Stati Uniti è dai tempi di Harry Truman, nel secondo dopoguerra, che si discute sotto varie forme di finanziamenti pubblici all’assistenza psichiatrica e di leggi di riforma sanitaria. Truman si appassionò alla causa della salute mentale perché aveva vissuto in prima persona i combattimenti della Prima Guerra Mondiale, aveva sperimentato sulla propria pelle la devastazione, lo shock, lo sconvolgimento, il dolore per la perdita, il trauma che accompagnavano a casa tutti quelli che facevano ritorno dalla battaglia. Questo interesse non lo trattenne da sganciare due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, ma lo portò il 19 novembre 1945 ad affermare davanti al congresso che we have done pitifully little about mental illnesses. Con la firma di Truman sul National Mental Health Act nel 1946 si incentivò per la prima volta la ricerca sulla salute mentale e nel 1949 venne costituito il National Institute of Mental Health (NIMH), che è ancora oggi una delle più grandi organizzazioni di ricerca al mondo dedicate alle malattie mentali. Ma nonostante gli sforzi, le condizioni di vita di coloro che vivevano l’esperienza del disturbo mentale e che si ritrovavano rinchiusi negli istituti psichiatrici non migliorarono.
John Fitzgerald Kennedy dimostrò un’insolita sensibilità nei confronti del tema della salute mentale, con ogni probabilità acuita da una complicata situazione familiare. Sua sorella minore, Rosemary, nacque infatti con una disabilità mentale a causa di complicazioni durante il parto e all’età di 23 anni fu sottoposta a un intervento di lobotomia che la costrinse a trascorrere il resto della vita in istituti psichiatrici. Nell’ottobre del 1963, il giorno di Halloween, JFK approvò una serie di audaci finanziamenti sotto il nome di Community Mental Health Act per la costruzione o l’adeguamento di strutture destinate a diventare nuovi community-based centers. Ciò che è successo il 22 novembre 1963 a Dallas ha fatto sì che quella restasse una semplice idea, ma portò anche Basaglia a recarsi negli Stati Uniti nel 1969, per vedere con i propri occhi che cosa stava effettivamente succedendo laggiù, sull’onda della traccia lasciata da Kennedy. Qualcosa si è mosso comunque, dopo il 1963, ma c’è da dire che in realtà si è trattata di una lunga serie di pasticci, basata in buona parte sulla convinzione – espressa in precedenza dallo stesso Kennedy – che alcune sostanze come la clorpromazina potessero risolvere qualunque problema e sul potere miracoloso di alcuni antipsicotici. Come racconta Powers, nella maggior parte dei casi il dirottamento dei pazienti psichiatrici verso la comunità significò un dirottamento verso le strade[4], spesso sulla via per il carcere. Potremmo parlare a lungo delle carceri negli Stati Uniti, paragonabili al cestino in cui la società getta i malati di mente che disturbano e descritti da alcuni come i più grandi centri di salute mentale in America. Ma non è questo il momento.
Qualche anno dopo Ronald Reagan, Governatore della California, venne messo al corrente della pesante condizione degli ospedali psichiatrici, da un lato come lesione del diritto, dall’altro come un investimento a fondo perduto, perché si trattava di luoghi in cui si consumavano inutilmente risorse. Reagan è in effetti il primo a chiudere veramente gli ospedali psichiatrici, ma lo fa senza avere in testa nessun progetto: con la firma sul Lanterman-Petris-Short Act (LPS) riversa nelle strade decine di migliaia di persone provenienti dai grandi manicomi. Non sa nulla e non gli interessa sapere nulla di salute mentale, ma è convinto che l’ingente giro di denaro che ci sta dietro si può certamente risparmiare. Attua una deospedalizzazione, ovvero la chiusura degli ospedali psichiatrici, ben diversa dalla deistituzionalizzazione pensata a Trieste, un processo di cambiamento radicale incentrato sulla restituzione di tutte le possibilità e di tutte le risorse rimaste intrappolate dentro le istituzioni totali. Insomma, Reagan chiude i manicomi per motivi prettamente economici. Il fatto che i matti non stiano più nei manicomi ma per strada porta molti di loro in prigione: il carcere della contea di Los Angeles si trasforma così in un enorme manicomio, mentre si forma e diventa popolosa la categoria dei senzatetto. Le semplici ma buone intenzioni di Jimmy Carter, inquilino della Casa Bianca dal 1977 al 1981, furono tradotte in una legge sulla salute mentale che faceva ben sperare per il futuro, ma vennero spazzate via dallo stesso Reagan dopo la vittoria su Carter per la presidenza.
Negli anni seguenti anche negli Stati Uniti c’è stato qualche lodevole tentativo di mettere in discussione il modello manicomiale e le modalità con cui viene affrontato il disturbo mentale, qualche esperienza che ha cercato silenziosamente di capovolgere l’oggetto dell’attenzione e di spostarlo dalla malattia alla persona. Penso per esempio a Soteria, modello di trattamento proposto dallo psichiatra Loren Mosher, specializzato nello studio della schizofrenia. Si tratta forse di uno dei primi progetti concreti di recovery che vedono luce negli Stati Uniti: niente farmaci e nemmeno ospedalizzazione, bensì attenzioni e relazioni.
Progetti come Soteria sono però mosche bianche, casi eccezionalmente rari che si discostano da situazioni ordinarie in cui coloro che non possono permettersi di pagare le visite in cliniche psichiatriche private e si recano nei centri di salute mentale pubblici si ritrovano intrappolati in code e liste d’attesa composte da centinaia di altre persone, sono costretti ad aspettare mesi per parlare con un solo psichiatra a servizio di tutti, ricevono per lo più prescrizioni su prescrizioni di farmaci, spesso si cronicizzano e buona parte si ritrova per strada. Negli Stati Uniti la concezione prevalente della malattia mentale è poco discosta dall’immagine che ne fornisce la scienza e questa prossimità a sua volta non dista molto dal rischio di psichiatrizzazione delle neuroscienze, che invece si allontana progressivamente dal racconto dell’esperienza del disturbo mentale che Basaglia meglio di chiunque altro ha delineato. Dell’Acqua mi ha spiegato questo concetto attraverso il paragone con un imbuto in cui entra la vita delle persone, passioni e fantasie, amore e odio, le loro condizioni economiche: sono cose che gli psichiatri non vedono, perché i loro sguardi sono raggiunti solo dal beccuccio dell’imbuto, da cui viene sputata fuori una diagnosi di un disturbo mentale ben definito che spesso è una condanna per la vita. Non è questa l’accoglienza: tutte le informazioni che entrano nell’imbuto hanno un valore cruciale perché contribuiscono alla costruzione dell’immagine. Bisognerebbe capovolgere l’imbuto. Dell’Acqua dice in sostanza che un cambiamento istituzionale è necessariamente anche culturale, perché impatta sulle culture psichiatriche preesistenti, determina una svolta nella considerazione delle persone con disturbo mentale e invita a spostare l’attenzione, a guardare da un’altra parte.
Deriva sociale
Sono stati condotti studi molto interessanti che correlano classi sociali e disturbo mentale e che hanno dimostrato la relazione che intercorre fra determinanti sociali della salute e malattia mentale. Questi studi ci permettono di affermare senza remore che, negli Stati Uniti come altrove, nella pletora di persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale si trovano i più poveri, quelli che dormono per le strade di Los Angeles, da ben prima dello scoppio della pandemia, o che vengono alloggiati nei parcheggi di Las Vegas durante il lockdown.
Al convegno internazionale Good Practice Services: Promoting Human Rights & Recovery in Global Mental Health Benedetto Saraceno, già direttore del Dipartimento di salute mentale e abuso di sostanze dell’OMS, ha raccontato che spesso gli operatori della salute mentale si sentono impotenti rispetto ai determinanti sociali della salute, perché giustamente non ritengono possibile e plausibile che la loro azione possa fermare le guerre, contrastare la povertà, impedire il cambiamento climatico. Ma non è di questo che stiamo parlando: ci deve essere impegno nel portare avanti micro interventi su micro determinanti della salute. Prima la casa e poi il trattamento, dice con fermezza Saraceno, e non prima il trattamento e dopo forse, un giorno, se avrai fatto il bravo, la casa. È la sanità che deve essere trainata verso le case delle persone.
La cura nella comunità
Negli Stati Uniti vengono condotte ogni anno moltissime ricerche in tema di salute mentale, più che in qualunque altro posto nel mondo. Sembra però che gli studi si muovano su un binario unico, senza possibilità di interscambio, perché le cure restano nel caos. Le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale continuano a sperimentare lo stigma e il pregiudizio che alberga negli occhi di chi guarda e che nel migliore dei casi si manifesta attraverso un generalizzato senso di apatia e indifferenza, mentre nel peggiore causa allontanamento. Le persone hanno smesso di porsi qualunque tipo di domanda.
Ma non tutto è perduto e dopo Soteria ci sono stati altri progetti che anche negli Stati Uniti hanno fatto ben sperare. Nel 2002 (quindi in realtà non proprio ieri) Courtenay M. Harding, psichiatra, già docente alla Columbia University di New York, scriveva sul New York Times che la maggior parte degli americani e gli psichiatri stessi non si rendono conto che molte persone affette da schizofrenia si riprendono (recover, per dirlo come lei). Harding si chiede perché non sono stati istituiti sistemi di cura che incoraggiano le persone con schizofrenia a riprendere in mano le loro vite. Studi condotti in Vermont su pazienti definiti hopeless, senza speranza, hanno dimostrato che i soli trattamenti farmacologici sono insufficienti e inefficaci se non affiancanti da ragionati e coraggiosi programmi riabilitativi mirati a fornire un aiuto nella gestione della vita quotidiana e da una crociata contro i pregiudizi, lo stigma, la discriminazione e la povertà che impregnano il tessuto sociale. Tra i fattori che secondo Harding emergono come ingredienti principali per la recovery non ci sono potenti neurolettici d’avanguardia, bensì una casa, un lavoro, degli amici e l’integrazione nella comunità, oltre alla speranza, al riappreso ottimismo e all’autosufficienza. In breve: i determinanti sociali delle salute.
È semplice, no? La recovery è possibile: impazzire si può, perché si può guarire.
Arthur Fleck
Se avete visto Joker, vi sarete resi conto della centralità del tema del disturbo mentale.
Ho apprezzato moltissimo il film quando sono andata a vederlo al cinema, ma dopo aver letto alcune recensioni (tipo questa) non ho potuto fare a meno di chiedermi se non si trattasse dell’ennesima pedante riproposizione dell’associazione fra disturbo mentale e pericolosità, se non alimentasse ancora una volta gli stereotipi che con forza, da sempre, si abbattono sulle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale, se non fomentasse lo stigma dell’aggressività, fra tutti il più arduo da superare. E che tra l’altro non è supportato da alcun fondamento scientifico, nonostante sia popolarissima la necessità di ascrivere chiunque commetta un reato nella categoria di persone con disturbo mentale.
Non penso sia così. Mi è sembrata palese, fin da subito, la denuncia dei tagli sulla salute mentale a Gotham City, una metropoli paragonabile a una grande città statunitense, e l’impatto sociale che questi provvedimenti sortiscono sui più deboli. Arthur subisce in prima persona lo smantellamento dei servizi, ma ancor prima la mancanza di un’organizzazione efficiente ed efficace che sia in grado di aiutarlo. I colloqui sono ridotti al minimo indispensabile, gli sguardi degli operatori sono freddi e distaccati e la loro preoccupazione principale riguarda la corretta e precisa assunzione dei farmaci. Non siamo così lontani dalla realtà.
Non c’è alcuna associazione fra disturbo mentale e atti violenti e criminali. I gesti e le scelte che compiamo quotidianamente sono frutto del vissuto di ciascuno, in cui rientrano reddito, istruzione, legami affettivi, amicizie e amori, dolori e paure. Arthur Fleck si ritrova ai margini di una società indisposta ad accoglierlo, una società ingiusta, iniqua e dominata dalle disuguaglianze, in cui chi è in difficoltà viene lasciato indietro. Un sistema che guarda caso si abbatte sui più poveri e in cui non c’è nessuno che dice I care.
E allora c’hanno ragione pure i Kodaline (perdonerete la citazione mainstream) quando in Shed a Tear cantano che it’s easy to love when the world doesn’t hate you.
Come nasce un cambiamento
In Italia la prima importante riforma che riguarda l’assistenza psichiatrica risale al 1968 ed è nota come legge Mariotti. Precede di dieci anni la legge 180/1978 ma rappresenta un importantissimo punto di svolta perché apre uno squarcio irricucibile e fa venire al pettine quei nodi attorno a cui si svilupperanno le successive discussioni politiche. Alle elezioni del 1976 – quelle che ricordiamo per il mancato sorpasso – i due principali partiti politici, Democrazia Cristiana e Partito Comunista, per la prima volta presentano entrambi il tema della tutela della salute mentale all’interno del Servizio sanitario nazionale nei loro programmi elettorali. Non era mai accaduto prima e il solo fatto che se ne parli ha la valenza di un gigantesco passo avanti.
Tornando agli Stati Uniti, le proposte di Biden e Sanders di investimenti per migliorare la qualità dell’assistenza psichiatrica sono frutto della denuncia, ormai palese e non più negabile, che i matti statunitensi si cristallizzano nella categoria sociale più ai margini di tutte le altre. Che se ne parli è già un gigantesco passo avanti.
[1] Francesco Costa, Questa è l’America, Milano, Mondadori, 2020, pp. 110-115
[2] Costa, Questa è l’America, pp. 117-125
[3] 2019 Greater Los Angeles Homeless Count – Data Summary. Total Point-In-Time Homeless Population by Geographic Areas
[4] Ron Powers, Chissenefrega dei matti, Trento, Edizioni Centro Studi Erickson, 2018, p. 217
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