Era dicembre dello scorso anno quando sono stata ricoverata tramite trattamento sanitario obbligatorio (TSO) in una delle sedi dell’Ulss del Veneto. Spesi tre settimane all’interno di quella struttura in cui era vietato uscire per respirare all’aria aperta. Solamente dopo due settimane mi fu concesso, imperativamente in presenza dei miei genitori – e non di altri familiari, amici o fidanzato, che potevano solamente aggregarsi – di uscire dalle porte dell’ospedale per un breve lasso di tempo, ossia all’incirca per mezz’ora. Ricordo la sensazione di liberazione e di gioia che provavo dopo quel periodo di reclusione, solamente sentendo un po’ d’aria accarezzarmi il viso o avendo la possibilità di scrutare da vicino qualche alberello. L’unica natura che ci era concesso osservare dal salone della psichiatria era un piccolo spazio verde contornato di lauri, mentre dalle camere alcuni anziani pini ci tenevano un po’ di compagnia al di là del vetro che ci isolava e ci impediva di goderne del tutto. In questo ambiente estraniato dalla realtà l’unica cura proposta era quella della sedazione oltre la quale eravamo abbandonati a noi stessi. Infatti non vi era alcuna attività ricreativa che ci fosse offerta, perciò alcuni di noi si dedicavano alla lettura come unico passatempo. Chiaramente era tremendamente difficile concentrarsi a lungo in una lettura poiché eravamo tutti sedati dai farmaci come detto prima, così era usuale rintanarsi nel letto, riaddormentandosi sia dopo la colazione che dopo il pranzo perché passare il tempo in quelle condizioni era tremendamente difficile. Altri si rifugiavano in qualsiasi programma televisivo pur di evadere dalla noia che li perseguitava e in cui eravamo murati, altri ancora andavano ripetutamente in sessioni di ore avanti e indietro per il corridoio il più lentamente possibile perché questo occupasse loro più tempo. Verso la fine del mio soggiorno anch’io mi sedetti più volte di fronte al televisore perché ormai ero disperata e senza nulla attraverso cui eludere il tempo.
Quando poi hanno iniziato a diminuirmi le dosi dei farmaci avevo molta più energia che mi veniva vietato di esprimere in un’attività, per cui le sere dell’ultimo periodo faticavo tremendamente ad addormentarmi perché avevo bisogno di muovermi, cosa che facevo camminando anch’io avanti e indietro per il corridoio, ma sempre con risultati scarsi. L’uso dei cellulari era regolamentato ed erano sotto tutela della segreteria, infatti ci era concesso utilizzarli due volte al giorno, a volte per mezz’ora a volte per un’ora intera, sforando un po’ i regolamenti quando gli operatori si concedevano di venire incontro alle nostre necessità. Anche le sigarette venivano regolamentate ma c’erano invece degli orari più precisi in cui ci era concesso fumare, in una stanzetta chiusa sotto l’occhio freddo e vigile delle telecamere che ci seguivano ovunque, a parte per delle zone di buio che lasciavano filtrare sia momenti di sana solitudine ma che potevano altresì diventare luoghi in cui qualsiasi cosa poteva rischiare di accadere. Il fatto che non ci fosse nessun tipo di attività di gruppo o possibilità di svago veniva accentuato dall’unico incontro settimanale attraverso cui uno psichiatra ci parlava soltanto delle diverse tipologie dei farmaci, rendendo ancor più miserevole l’aspetto della cura dal punto di vista umano. Certo gli operatori ci dispensavano cibo e medicine, alcuni di loro, pochi, erano delle persone dal volto umano che nonostante la violenza dell’istituzione provavano a rendere l’ambiente più delicato avvicinandosi a noi con empatia, ma questo non è sufficiente per gestire la carica emotiva distruttiva, ossia di dolore, che emerge all’interno dei cuori di chi è ricoverato. Sarebbe davvero necessario modificare questo approccio depersonalizzante e iniziare già dal TSO un percorso psicologico e un percorso ricreativo. Fortunatamente tra noi malati si instauravano legami d’amicizia, così da sopperire il peso del silenzio dell’istituzione. Grazie al cielo la mia famiglia è sempre stata al mio fianco ed è in gran parte per merito del loro amore e delle loro cure sincere che gradualmente posso riconoscere in me dei miglioramenti, ma purtroppo questo non è il destino di tutti. Tanti purtroppo non trovano una famiglia che li sorregga, per mille motivi diversi, ma in tal caso mi domando quanto forte possa essere il loro dolore se già il mio lo considero importante e quanto questo possa essere accentuato da una psichiatria sorda che si rivolge alla cura dell’uomo solo attraverso la sua cartella clinica. Per questo credo sia fondamentale cambiare del tutto approccio. Ho visto amici del reparto tirare calci sulla vetrata della segreteria, urlare in maniera disperata e nessuno era lì per ascoltarli perché non c’era nemmeno uno sportello psicologico continuo o almeno giornaliero. Gli unici incontri individuali sono stati con lo psichiatra di reparto, una volta a settimana, e solo una volta nell’arco di tre settimane con una psicologa. Qualche operatore magari cercava di consolarci, ma questo di nuovo non basta se non c’è un professionista che si occupi dell’intera storia del paziente e un ambiente pacifico oltre che positivamente stimolante. È l’ascolto delle trame del vissuto personale che manca. È l’identità della persona a cui va data la possibilità di ricostruirsi.
Maddalena, ricoverata recentemente presso il servizio di diagnosi e cura (SPDC) in provincia di Venezia
[Maddalena non è il mio reale nome, ma risulta necessario per tutelare la mia persona]