luciano d.

di Peppe Dell’Acqua

Qualche mese fa su fb ho trovato un messaggio di Nicoletta Bidoia. Chiedeva il mio indirizzo postale per inviarmi un libro. Un suo libro appena uscito. Con delicatezza, in poche parole mi chiedeva di trovare il tempo di leggerlo e di farle sapere qualcosa. Ci teneva molto.  Il libro è arrivato, l’ho letto, ho telefonato a Nicoletta. Che non conoscevo e siamo diventati amici un po’ meno virtuali.

Dopo qualche tempo mi ha comunicato emozionatissima che il suo libro sarebbe stato il libro del giorno a Fahrenheit. Nicoletta scrive, le piace molto scrivere. È una scrittrice e lavora negli uffici amminstrativi di una casa di riposo.

Uno di quei luoghi dove sono ospitati anche signore e signori con decenni di esperienze psichiatriche alle spalle. Ed è qui che Nicoletta incontra la gentilezza, la leggerezza, la bizzarria del signor Luciano D. Il libro è la registrazione delicata degli incontri che da quel momento si succederanno. Prima occasionali, poi desiderati, attesi, cercati.

Non è facile scrivere di un messia, di uno che disputa con i papi, che classifica, in una singolarissima e personale scala di valori, il mondo, le cose, gli uomini,  le donne, le religioni, le divinità, i santi e i beati. Non è facile, si corre il rischio di evocare le più banali immagini della malattia mentale. Dei più scontati luoghi comuni. Specie se è lo stesso signor D. che si presenta con le sue bizzarre parole, con le sue incrollabili certezze, con le sue lettere esilaranti alle autorità più improbabili. Segni e comportamenti che qualsiasi psichiatra, e non solo, non esiterebbe a definire e classificare. E invece no. L’incontro, l’accoglienza, il tentativo di entrambi di esserci veramente costruisce lo spazio del racconto, della narrazione, della storia. Lo spazio dove i fatti, le cose, le parole si illuminano e le passioni diventano corpose, dense e delicate.

Conoscendo poco a poco il signor D, non ho potuto fare a meno di ripensare ad altri e ormai lontani incontri, misteriosi e stupefacenti. Lo stupore di incontrare più di quarant’anni fa, io poco più che ventenne, altri messia, ostinati anticristo, inventori del moto perpetuo, di complicate e meravigliose macchine volanti, detentori di indicibili segreti che rivelati distruggerebbero il mondo. Ho attraversato con un crescente male sottile la storia che il signor D mi raccontava. Come interrogare l’archivio di un vecchio manicomio in rovina; o visitare una di quelle belle mostre di “art brut”, che sempre mi angosciano, e che rivelano la ripetitività dei gesti, di una quotidianità vuota, del tempo servo delle istituzioni.

In quelle espressioni non posso non vedere la violenza della vita istituzionale. Il malato, internato per curare la malattia, non può fare altro che rifugiarsi in essa e coltivarla. Per difendersi dall’istituzione che attenta quotidianamente alla sua singolarità. Giorno dopo giorno non può che essere costretto a un’unica piatta identità. Incorporare le regole dell’istituzione, diventare un oggetto che l’istituzione deve governare. Per preservare un brandello della sua umanità, della sua storia, di una sua sbiadita memoria del mondo cui non appartiene più, non può che coltivarla, la malattia. Costruire immagini uniche e rare e raramente preziose e affascinanti. Il più delle volte prigioni ben più potenti della prigione stessa che l’istituzione riproduce. Immagini fuori da ogni possibile scambio. Castelli, muri, campane di vetro, fossati, trincee, filo spinato.

Il signor D non ha più bisogno di queste difese, ora, ma non può farne a meno. Ora con allegria, con ironia, con sarcasmo a volte, continua a recitare il canovaccio che ha ben appreso alla scuola del “teatro della follia”. Il diario paziente e gentile di Nicoletta, in un tempo nuovo, restituisce possibilità. Come non ricordare qui che i manicomi sono chiusi e la soggettività finalmente restituita.

Il signor D nelle ultime pagine del libro esprime un desiderio di normalità. Riesce a non aver timore dell’insopprimibile bisogno dell’altro. Può per un attimo togliersi la maschera e mostrare la sua umana comune infelicità. Che ora può condividere con Nicoletta che l’ascolta e che così scrive.

“Il nome di Dio è AIT” mi spiega con la pazienza di un catechista. “Dio è solo un cognome.”

Improvvisamente mi guarda con i suoi occhi scuri e abbassa la voce, come si fosse squarciato dentro di lui il velo sul desiderio più vero e non potesse più trattenersi dal dirmi. “Spero di tornare a casa una volta o l’altra. Per sempre.”

Stasera, quando sono ritornata a casa mia ho pensato a lui, a tutte le camerate e le camere doppie che ha abitato negli ultimi suoi cinquant’anni. Ho pensato al rumore che i passi fanno nei corridoi, prima di arrivare alla propria stanza e agli orari fissi della sveglia, del pranzo e della cena. Ho immaginato le grida di agitati in un lontano istituto per matti. Ecco, ho pensato a tutta quella sua vita ingabbiata, stretta in maglie strette e, in passato, devastanti. Poi per poter respirare e addormentarmi, non ci ho pensato più.


Nicoletta Bidoia, “Vivi. Ultime notizie del signor Luciano D.” – edizioni La Gru

(www.edizionilagru.com)

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