di PIER ALDO ROVATTI. Con la sua storia culturale e per le battaglie civili che ha sostenuto negli ultimi decenni, Trieste è diventata un sismografo molto sensibile all’evolversi o – sarebbe meglio dire – all’involversi della questione psichiatrica, alle sue modulazioni istituzionali. Le agende elettorali oggi tacciono con evidente reticenza, eppure ci sarebbero fatti importanti da registrare. Ho tra le mani un recentissimo documento che potremmo definire epocale: si tratta della relazione conclusiva della Commissione d’inchiesta parlamentare (coordinata dal senatore Ignazio Marino) che per diversi anni ha indagato sul campo le condizioni dei servizi italiani per la salute mentale. La conclusione è che attualmente esistono molte e pesanti “criticità”, che dunque la psichiatria istituzionale non è in buona salute ma potrebbe guarire, e al proposito le indicazioni della Commissione non sono certo elusive.
Occorrerebbe sanare il grave deficit di un intervento sul territorio che è bloccato e presenta differenze anche abissali tra luogo e luogo, e questo si potrebbe fare potenziando i Centri di salute mentale e depotenziando le strutture che agiscono presso gli ospedali (reparti di Diagnosi e cura). Queste ultime – come si sa e come l’inchiesta ha puntualmente confermato – raccolgono i casi acuti (le “acuzie”, come si dice), agiscono abitualmente a porte chiuse, si limitano a risposte farmacologiche, usano disinvoltamente la contenzione dei malati e non è raro che ricorrano all’elettroshock. Lì la cultura manicomiale è tutt’altro che estinta, anzi alligna vistosamente. Episodi clamorosi, come le morti avvenute in tali reparti a Cagliari e a Vallo della Lucania, testimoniano in modo crudo fin dove ci si può spingere in situazioni deprivate di qualunque adeguata assistenza terapeutica. E i cosiddetti “cronici”, oggi dove vanno a finire? Vengono avviati nelle “residenze protette” (quelle che dovrebbero ora “accogliere” anche i malati provenienti dagli Ospedali psichiatrici giudiziari in via di chiusura): anche sulla “criticità” di queste strutture residenziali, spesso legate a convenzioni con il privato, la Commissione non ha dubbi: sono luoghi “chiusi”, delle enclave pur diverse ma tutte discendenti, per le loro caratteristiche, dalla medesima cultura manicomiale, quella che dovrebbe ormai essere alle nostre spalle. Inoltre, a conti fatti, è ben documentabile la loro onerosità, se le confrontiamo con una moderna assistenza sul territorio. Il trend che si registra sembra proprio andare in direzione opposta: si procede infatti all’accorpamento, e dunque all’impoverimento, dei Centri di salute mentale esistenti, per vantate ragioni di spesa, con il risultato di premiare la psichiatria ufficiale (ospedaliera e anche privata) e di punire l’intervento terapeutico sul territorio. Così – conclude la Commissione – non si argina affatto la malattia, anzi si ostacolano le pratiche diffuse che potrebbero curarla. Mi scuso con gli addetti ai lavori se ho sintetizzato in poche battute il succo di questo importante documento. Perché lo si può definire “epocale”? Per il fatto che dà un taglio al tormentato capitolo delle polemiche intorno alla riforma della legge Basaglia, la quale viene considerata come un dato di civiltà e un tornante culturale. Al rischio, concreto e documentabile, di un ritorno alla cultura manicomiale viene contrapposto, neppure tanto velatamente, l’esempio delle buone pratiche che si sono sviluppate soprattutto nella nostra città e nell’intera regione, e da qui sono emigrate anche in altri comparti nazionali. Una, innanzi tutto: la costruzione di Centri di salute mentale aperti 24 ore su 24 e supportati da una rete assistenziale che va dalle case alloggio alle associazioni di auto-aiuto. Proprio mentre, con drastiche misure di accorpamento e in nome del risparmio, si sta tentando di smobilitare questo edificio di buone pratiche (allontanando così anche alcuni leader scomodi), la Commissione parlamentare, cui partecipano – lo ricordo – tutte le istanze politiche, dopo avere ascoltato le associazioni dei famigliari e degli utenti e aver visionato con i propri occhi e non frettolosamente lo stato delle cose, scende in campo per affermare con chiarezza che una simile smobilitazione è l’esatto contrario di ciò che si dovrebbe fare, e che lo sbandierato risparmio è più che altro un trucco. Ci avverte che la situazione è pericolosamente bloccata e che il ritardo culturale va prendendo piede ogni giorno che passa: insomma, lancia una specie di allarme. Con una cornice così ufficiale e autorevole, questo finora non era mai accaduto. “Se non ci credete, guardate qui dentro”, diceva Galileo Galilei agli inquisitori porgendo loro il suo cannocchiale, ma loro non ne volevano sapere di avvicinare gli occhi a quello strano oggetto: sostenevano ciecamente i loro presupposti cosiddetti scientifici. Attualizzando l’apologo, al posto dell’Inquisizione possiamo immaginare la psichiatria ufficiale con i suoi potenti interessi e una corazza difensiva fatta di raffinata scientificità. Con uno sguardo paternalistico rivolto a chi sta male, osservano dall’alto in basso, quasi fossero degli analfabeti, coloro che invece hanno soprattutto a cuore le vite e le relazioni tra le persone e professano un’idea non manicomiale del cosiddetto disturbo di mente.
(da Il Piccolo del 08.02.2013)