“La città che cura” di Erika Rossi, dopo il suo debutto a Trieste, ha cominciato un tour impegnativo. A Roma, a Gorizia, a Firenze, a Torino e ai festival di Garda, Foligno e ora Milano, arriverà in almeno altre dieci città. Ovunque è stato, tra le altre cose, pretesto per incontri tra operatori sociali e sanitari, amministratori, politici. A breve arriverà a Genova.
Di Amedeo Gagliardi
Erika Rossi dimostra molto coraggio nell’aver realizzato questo film.
Già in passato aveva dimostrato coraggio. Con Trieste racconta Basaglia e Il Viaggio di Marco Cavallo aveva cercato, prima nella sua città e poi in giro per l’Italia, di ripercorrere quello che è rimasto dell’eredità basagliana.
Oggi con questo film riesce in un ulteriore salto di qualità, proponendo uno sguardo particolare sulla sua Trieste, trattando un tema lontano e inconsueto per il cinema e il suo pubblico: un progetto di salute pubblica. Un tema che sollecita il cittadino più che lo spettatore, tema e segmento del sistema di sicurezza sociale di una democrazia che accompagna l’esperienza delle persone, in meglio o in peggio, a seconda della sua reale capacità di servire. È per questi motivi che il coraggio di Erika ha richiesto contemporaneamente rigore stilistico e passione civile per riportare in immagine, emozione, racconto, un progetto che attraverso il cinema si propone non solo di raccontare una buona pratica, ma di porre una domanda a tutti noi.
La città che cura, titolo preso in prestito dal nome del progetto messo in campo da Azienda Sanitaria, Comune di Trieste e Azienda per l’Edilizia Territoriale e che condivide col bel libro a cura di Giovanna Gallio e Maria Grazia Cogliati Dezza, edito Collana 180, racconta di come tale pratica, attraverso il progetto delle MicroAree, si fa esperienza di prossimità istituzionale, di accompagnamento alle persone, impegnando gli operatori nel radicarsi nel territorio, nei luoghi, nelle case, negli habitat sociali.
Il racconto si apre con un’indicazione del 2011 dell’Organizzazione mondiale della Sanità, proiettata a tutto schermo, che ricorda allo spettatore di come lo stato di salute di una popolazione sia il risultato di un sistema di relazioni capace di rompere l’abbandono e la solitudine. Indica come le disuguaglianze nella salute dipendano dalle condizioni sociali in cui le persone nascono e invecchiano, e che intervenire su queste è essenziale per creare società eque. Questo costituisce per tutti i decisori un imperativo etico.
Il film procede attaverso il racconto del lavoro quotidiano di un’equipe di operatori del quartiere di Ponziana, dove il progetto ha avuto inizio quasi una ventina d’anni fa. All’epoca le autorità socio-sanitarie si erano accorte di come il tasso di ricovero in ospedale di quella parte di città fosse quasi il doppio della media, e attraverso un’attenta ricognizione avevano osservato come in soli otto, dieci, grandi condomini si concentravano tanti utenti del Distretto, del SERT, del Centro di Salute Mentale e anziani soli. È da questa capacità di analisi che parte l’idea e il progetto di costruire una base operativa dentro quella MicroArea, il Portierato Sociale, un luogo dove portare le Istituzioni vicine ai cittadini, dove rendere accessibili le pratiche sanitarie attraverso quelle sociali. Certo, perché il Porteriato Sociale, situato al piano terra di uno di questi grandi condomini, viene descritto dal film come luogo non solo di prestazioni sanitarie, ma punto d’incrocio di convivialità, d’incontro, dove poter mangiare insieme, ballare, trovare abiti, suonare, ascoltare musica, fare teatro e tutte quelle attività tipiche di un centro sociale.
Il racconto prosegue e si concentra attorno alla vita di tre persone: Plinio, Roberto e Maurizio. Tre persone che in modo diverso ci guidano nella geografia del quartiere e dei loro particolari bisogni e fatiche che sono insieme ostacolo, barriera, senso di abbandono e isolamento. È qui che l’intervento degli operatori, in primis di Monica, si fa carico di accompagnare ognuno di loro verso le attività e le cure più appropriate, attraverso un lavoro quotidiano di grande professionalità, in una cornice di funzione pubblica.
Ma ecco affiorare il tema della sfida che il film pone anche in modo esplicito attraverso le tante domande che gli operatori stessi si fanno durante le riunioni d’equipe. Perché dopo così tanto tempo questo progetto continua ad essere visto con sospetto da molti? Come mai, nonostante in tanti convegni si faccia riferimento a modelli di integrazione socio-sanitaria per migliorare l’accesso alle prestazioni, oggi il modello più in voga nei sistemi di salute pubblica continua ad essere quello legato alla divisione tra le prestazioni sociali e sanitarie? Come mai, nonostante i risultati raggiunti da questa esperienza, questo modello non è diventato egemonico?
Il film si conclude ricordando che il Progetto, unico in tutta Europa, oggi è presente a Trieste in sedici MicroAree, coinvolgendo 18’000 abitanti e lasciandoci con un un senso di nostalgia e di amarezza per come dovrebbe anche essere la Salute Pubblica: un efficace strumento di contrasto alle disuguaglianze.
Il film descrive come tale esperienza sia possibile se si approda ad una diversa visione del mondo e ad un modo diverso di intendere i servizi alla persona. Non è un caso che questo sia possibile a Trieste, dove è ancora presente e viva l’eredità culturale di Franco Basaglia. Un’eredità semplice racchiusa nella risposta data da Basaglia a Sergio Zavoli nei Giardini di Abele, documentario del 1968 sull’esperienza goriziana, che chiedendo se lo interessava di più il malato o la malattia, rispondeva in modo deciso: «Il malato».
Il film, attraverso l’esperienza di Trieste, ripropone oggi la stessa domanda come nodo centrale della questione sociale e della convivenza civile e democratica. Una domanda diretta ai cittadini ma soprattutto a chi guida le Istituzioni nel nostro paese: «Francamente, Le interessa di più il malato o la malattia?». Una domanda che continua ad essere più che mai attuale, viste le condizioni e le sorti delle Istituzioni Pubbliche del nostro paese, progressivamente depotenziate dall’egemonia del privato da una parte e, dall’altra, assediate dai crescenti livelli di povertà e diseguaglianza.
È dunque questo un film che ci aiuta a chiarire da che parte stare se vogliamo rimanere fedeli al dettato Costituzionale. Ragionando su quale grado di diseguaglianza può tollerare una democrazia per continuare a ritenersi tale e comprendere come l’insicurezza sociale, della quale si fa largo uso oggi a fini propagandistici, non cresce in virtù di una presunta invasione ma piuttosto perché le disuguaglianze non trovano argini Istituzionali. Lasciare le persone sole ed abbandonarle al loro destino fuori dal legame sociale vuol dire lasciarle facile preda dei suoni di pifferai magici.
Il film invita a riprendere un’attività di rinnovamento Istituzionale che non può mai venir meno: abbiamo bisogno di processi capaci ancora di deistituzionalizzare, cioè di aiutare le Istituzioni a diventare coscienti che rimangono utili solo se sanno stare accanto al malato, alle persone, al cittadino, affinché possa diventare più libero e più eguale nella fraternità di un aiuto disposto dal patto a cui la nostra convivenza è vincolata: la Costituzione.
Per questo motivo ringrazio Erika Rossi per il bel film che ci propone ma soprattutto ringrazio tutti gli operatori e le persone coinvolte nell’esperienza del Progetto di MicroAree, perché ci indicano una strada da non smarrire, per ripartire o continuare nell’impegno civile e democratico in questo Paese.