Al Forum romano abbiamo ben compreso che su alcune questioni che ci sembravano cruciali 10 anni fa, e non rinviabili, dobbiamo tenere altissima la guardia. Solo per ricordare: la drammaticità della contenzione, il difficile percorso di chiusura degli OPG, lo stravolgimento, nell’uso piatto e banale, di strumenti di garanzia come il TSO e l’Amministrazione di Sostegno. La questione del TSO posta da Daniele (vedi) invita ad approfondimenti e discussioni.
Assisto spesso sbalordito a un uso spregiudicato (e illecito) del TSO in tanti servizi di salute mentale. Il direttore di Vallo della Lucania, per esempio, a proposito della contenzione mortale subita dal maestro Mastrogiovanni dichiarò: “… era ricoverato in TSO e di conseguenza era lecito contenerlo..”. Altri psichiatri, che poco hanno studiato, dichiarano nelle loro certificazioni per chiedere l’ordinanza del sindaco che quella persona è : ”pericolosa per sé e per gli altri”, dimenticando che nel 1978 qualcosa di molto importante è cambiato. Accade poi che l’ordinanza del sindaco venga eseguita dalla polizia e dai carabinieri in assenza di operatori sanitari e senza una traccia di negoziazione, di vicinanza, di comprensione. E ancora nella quasi totalità dei servizi di diagnosi e cura si sbarrano le porte, si controllano le persone con le telecamere, in alcune situazioni ho potuto vedere guardie giurate armate. Ma perché? “… per poter ricoverare i TSO!” rispondono.
Queste le pratiche.
Non deve meravigliare poi che persone come Daniele e tantissime altre con l’esperienza (e con questa esperienza!) si battono per l’abolizione del TSO. Come se di fronte alla scuola elementare di Arzano ci battessimo per abolire il diritto all’istruzione! Eppure tutti affermiamo che la legge 180 è preziosa, che ha cambiato radicalmente la prospettiva di vita delle persone con disturbo mentale, che è una legge che tutti ci invidiano.
Come tutti sanno la legge 180, il cambiamento epocale che ha determinato, altro non è che la regolamentazione dei trattamenti sanitari volontari e obbligatori.
La svolta avvenne il 13 maggio 1978, quando fu approvata la legge, il cui nome completo è “Norme per gli accertamenti ed i trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. In seguito essa venne inserita nella legge n. 833 del 23 dicembre 1978, che istituì il Servizio Sanitario Nazionale. La legge 833, stabilisce un principio fondamentale: alla base del trattamento sanitario, deve esserci non più un giudizio di pericolosità e/o di pubblico scandalo ma prima di tutto il bisogno di cura di ogni singola persona. Il trattamento sanitario è di norma volontario e viene effettuato, come pure la prevenzione e la riabilitazione, nei presidi e nei servizi extra – ospedalieri operanti nel territorio. Ma tante volte, e Daniele ha ragione, non è così.
Durante lo svolgimento delle pratiche per l’attuazione del TSO occorre fare ogni sforzo per ricercare il consenso alle cure da parte della persona, alla quale devono comunque essere garantiti i diritti di libera comunicazione e la possibilità di ricorrere al giudice tutelare contro il provvedimento. Anche altri, familiari e amici, possono ricorrere.
Il Trattamento Sanitario Obbligatorio viene attuato presso qualsiasi struttura territoriale di salute mentale oppure anche a domicilio della persona. Nel caso in cui si reputi necessaria la degenza ospedaliera, il TSO viene eseguito negli Ospedali Generali, in genere presso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) oppure nei reparti di degenza se sono presenti altre condizioni mediche che lo richiedono.
La 180 fu pensata come una legge quadro. Nel senso che rinviava a un Piano Sanitario Nazionale le disposizioni attuative. Doveva essere perciò questo Piano Sanitario Nazionale a stabilire tutti “i criteri e gli indirizzi ai quali deve riferirsi la legislazione regionale per l’organizzazione dei servizi fondamentali e per l’organico del personale … le norme generali per l’erogazione delle prestazioni sanitarie, gli indici e gli standard nazionali da assumere per la ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale tra le Regioni”. Accadde invece che le leggi regionali vennero formulate con gravi ritardi, in modo frammentario e spesso contraddittorio rispetto alla legge nazionale. Di conseguenza il Piano Sanitario Nazionale si realizzò tra innumerevoli lentezze, difficoltà e resistenze. Basti pensare che solo nel 1994 è stato emanato il primo Progetto Obiettivo Tutela Salute Mentale. Nel frattempo la legge 180 non fu aiutata né adeguatamente finanziata. In questa situazione, può essere ricordata a titolo esemplificativo la Regione Friuli – Venezia Giulia, che, come alcune altre, poche purtroppo, recepì pienamente le indicazioni della legge 180. E, con la legge regionale n. 72/23 dicembre 1980, diede avvio ad un profondo cambiamento.
Attualmente, a fronte di una sempre maggiore regionalizzazione, cioè attribuzioni di competenze in campo sanitario ai governi regionali, la legge 180 acquista ancora più valore. Essa infatti stabilisce l’indirizzo generale e i margini di garanzia e di diritto che le leggi regionali devono salvaguardare.
Un paio di decenni fa, quando l’Ospedale Psichiatrico era l’unica possibilità di trattamento, di frequente le persone subivano per lunghi periodi di tempo l’internamento coatto, cioè contro la loro volontà. L’intento era quello di salvaguardare la società e di fornire alle persone protezione e tutela. Custodia e cura. In questa situazione questi trattamenti non potevano avere successo: al contrario, essi causavano gravi danni derivanti dalla lunga istituzionalizzazione.
Oggi l’approccio al disturbo mentale (anche severo) può essere completamente diverso: esistono trattamenti che riducono in maniera sostanziale i sintomi. Ed esistono i servizi territoriali che possono garantire assistenza e continuità terapeutica a tutte le persone, quale che sia la loro condizione economica. Oggi, se una persona viene obbligata al ricovero ospedaliero e/o al TSO, ciò deve avvenire operando affinchè nel più breve periodo si riducano i sintomi acuti e così possa essere dimessa e possa continuare la sua ripresa nel contesto familiare e sociale.
Accade a volte che una persona non stia bene, rompa le sue normali relazioni, cambi le sue consuete abitudini, e pur non essendo affetta da un disturbo mentale grave, non si renda conto di avere bisogno di cure. In questo caso i familiari, gli amici, i conoscenti devono assolutamente ricorrere al servizio di salute mentale. Se la persona non si convince di aver bisogno di cure, è necessario far riferimento alle leggi per la salute mentale, che garantiscono la tutela della salute delle persone e l’avvio di un programma terapeutico. Anche obbligatorio, se del caso. E’ qui che si gioca il diritto alla salute e alle cure che tanto invochiamo. È l’articolo 32 della Costituzione. Tra diritto alla salute e rifiuto delle cure, la legge 180, il TSO, in tutta evidenza non è la soluzione. È soltanto un punto di massimo equilibrio possibile, estremamente contraddittorio, per garantire le persone e conservare possibilità nel momento di massima fragilità.
Quando perciò i servizi non si muovono verso le persone, ascoltando, mediando, negoziando stanno ledendo un diritto.
In certi paesi è sufficiente che uno o due medici certifichino la necessità delle cure perché abbia luogo il ricovero obbligatorio. In altri, bastano evidenti segni di comportamento pericoloso o bizzarro rilevato dalla polizia per portare all’ospedalizzazione coatta le persone, senza certificato medico ma soltanto per ordine della polizia. In altri ancora, le normative per la salute mentale si prestano a interpretazioni discordi che creano problemi alle persone, ai familiari e ai medici.
E’ importante a questo punto sottolineare il fatto che, quando una persona viene ricoverata contro la propria volontà, ciò deve avvenire al solo fine di sottoporla a dei trattamenti sanitari urgenti, e non per altri motivi come ad esempio ordine pubblico, controllo sociale o difesa di interessi di terzi.
In Italia la legge che istituisce il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) prevede che la persona resti un cittadino e che conservi i diritti fondamentali previsti dalla Costituzione.
La legge italiana prevede che il TSO venga proposto da un medico, non necessariamente uno psichiatra, che sia sempre convalidato da un medico del servizio pubblico (almeno uno dei due deve essere psichiatra), che la richiesta venga accolta dal Sindaco che dispone l’ordinanza di ricovero, comunicando e trasmettendo al Giudice Tutelare del tribunale competente il provvedimento entro 48 ore. La richiesta deve contenere precise motivazioni (e non pericoloso a sé …). Far cenno alla pericolosità da parte dei medici può costituire ragione di nullità dell’ordinanza stessa. La richiesta di TSO deve contenere la narrazione di tutti i tentativi messi in atto per ottenere il consenso della persona, la descrizione del contesto, le ragioni del rifiuto ostinato.
Il giudice nel prenderne atto dovrà vigilare sulla corretta esecuzione del trattamento a garanzia dei diritti dalla persona in quanto a questa vengono temporaneamente limitate alcune le libertà personali. Il TSO non può durare più di sette giorni, fatto salvo che il medico non rinnovi la richiesta al sindaco.
L’obiettivo è dunque quello di rendere il TSO una misura di carattere prevalentemente transitorio e comunque periodicamente controllata. In modo da evitare quell’abbandono terapeutico e giuridico delle persone, quell’isolamento in cui sfociava l’internamento manicomiale. Può accadere in molti Paesi, purtroppo anche in alcune zone di varie Regioni italiane, che i servizi si attivino con difficoltà e con lentezza nel prendere in carico una persona. La mancanza di ascolto, di contatto, di conoscenza porta talvolta a far dire che non si può fare altro che obbligare.
Ma cosa non si è fatto prima?
È utilissimo che tutti, specie le persone con esperienza, conoscano le disposizioni di legge. E sappiano che, anche se la persona non accetta nessuna visita medica che valuti le sue condizioni, esiste l’istituto dell’Accertamento Sanitario Obbligatorio (ASO) che permette di effettuare questa visita. Per richiedere un ASO basta la firma di un solo medico, che deve essere convalidata dal Sindaco. Comunque, ASO e TSO devono venire effettuati nei tempi più brevi e nei modi più adeguati possibili, cioè mettendo in atto tutte quelle strategie volte ad ottenere il consenso della persona, come la legge sempre prevede.
E’ importante sapere che gli operatori dei servizi sono obbligati a effettuare la visita a casa. Bisogna evitare che la persona, rifiutando la visita oppure impossibilitata a spostarsi, resti abbandonata senza ricevere le cure di cui ha bisogno (e diritto).
Le disposizioni di legge insomma offrono alle persone con l’esperienza, ai loro amici e alle loro famiglie strumenti per impedire che prepotenze delle psichiatrie “riduttive”, conflitti di competenze tra amministrazioni o irrigidimenti burocratici ritardino o addirittura impediscano l’attivazione dei servizi. O peggio rendano leciti e “normali” trattamenti lesivi dei diritti, della dignità, della propria singolare storia.
Insomma se la scuola di Arzano è sgarrupata, devo sentire ancora di più l’urgenza di sostenere il diritto all’istruzione e alla scuola pubblica.
1 Comment
“Dopo la legge 180 deve scomparire l’ospedale psichiatrico, non si devono più costruire ospedali psichiatrici e questo grazie ad un movimento e a dei concetti che noi abbiamo elaborato. Tuttavia la legge rischia, attraverso alcuni articoli e in maniera contraddittoria con lo spirito che la ispira, di lasciar sopravvivere la situazione attuale. In effetti questa legge corrisponde ad una situazione di transizione nella quale si mescolano diverse correnti: il trattamento sanitario obbligatorio resta nei fatti una procedura d’internamento e sussiste sempre la mescolanza di criteri medici ed amministrativi”. Un caro ragazzo mi segnalava questa frase di una vecchia intervista di Basaglia, post 180, anche allo scopo di chiarire la sua tesi circa il fatto che la maggior parte di coloro che comunemente vengono definiti “basagliani” , non abbiano niente a che spartire con lo spirito più autentico di Basaglia.
Problema suo, a cui non mi accaloro in quanto altrettanto critico nei confronti del primo e dei secondi.
La lettura di questo scritto di Dell’Acqua però mi ha fatto venire in mente quel post e mi ha fatto spezzare una piccola lancia in favore del mio amico.
Anche Basaglia, sembra, pur essendo crocifisso mani e piedi alla 180, ne avvertiva un che di inquietante. Quanto lontane le sue parole “il trattamento sanitario obbligatorio resta nei fatti una procedura d’internamento” da quelle di Dell’Acqua che lamenta “lo stravolgimento, nell’uso piatto e banale, di strumenti di garanzia come il TSO”.
Si potrebbe dire che la dichiarazione di Basaglia è influenzata dall’atmosfera fortemente “ideologica” e carica di passione e speranza di quegli anni. Del resto anni addietro un non più giovane psichiatra ortodosso mi confermava come i suoi “cattivi” maestri avevano tentato di dissuaderlo dall’intraprendere gli studi di specializzazione in psichiatria, perché tale professione non avrebbe avuto futuro. E invece, contro ogni pronostico, tanto era sembrato chiaro che qualsiasi (inco)scienza che intenda trasformare i comportamenti, i pensieri, le scelte, i modi di vivere delle persone, ancorché indesiderabili dai più, sconvenienti, intollerabili e sconsiderati, in sintomi o segni di una qualche malattia, disturbo, disagio, fragilità di cui si erge a cura non può che distruggere le persone stesse e la loro esperienza, ha avuto ragione proprio lui.
Tant’é che “Oggi l’approccio al disturbo mentale (anche severo) può essere completamente diverso: esistono trattamenti che riducono in maniera sostanziale i sintomi. Ed esistono i servizi territoriali che possono garantire assistenza e continuità terapeutica a tutte le persone, quale che sia la loro condizione economica. Oggi, se una persona viene obbligata al ricovero ospedaliero e/o al TSO, ciò deve avvenire operando affinchè nel più breve periodo si riducano i sintomi acuti e così possa essere dimessa e possa continuare la sua ripresa nel contesto familiare e sociale”. Altro che “procedura di internamento”. I tempi sono cambiati e i dubbi di Basaglia senzaltro superati.
E non solo quelli, a leggere le parole di Dell’Acqua:
“Accade a volte che una persona non stia bene, rompa le sue normali relazioni, cambi le sue consuete abitudini, e pur non essendo affetta da un disturbo mentale grave, non si renda conto di avere bisogno di cure. In questo caso i familiari, gli amici, i conoscenti devono assolutamente ricorrere al servizio di salute mentale. Se la persona non si convince di aver bisogno di cure, è necessario far riferimento alle leggi per la salute mentale, che garantiscono la tutela della salute delle persone e l’avvio di un programma terapeutico. Anche obbligatorio, se del caso”.
Rompere le normali relazioni e cambiare le proprie consuete abitudini è la strada percorsa da tutti in quel percorso umano che chiamiamo trasformazione e cambiamento e che ci fa esseri umani e non cose. In un attimo con naturalezza rientriamo pienamente nella logica manicomiale (che è poi la logica psichiatrica). Il tecnico delle buone pratiche decide l’autentico cambiamento dal mero stare male e delirare e, per giustificare l’imposizione del suo giudizio, si richiama alla madre di tutte le giustificazioni psichiatriche “non si rende conto di aver bisogno di cure” oppure “non si convince di aver bisogno di cure”.
La questione è che non ci siamo spostati di un millimetro dalla trappola manicomiale. Ancora oggi ci si comporta come se esistesse un “diritto alla cura” (che diventa un obbligo a ricevere le cure che io so essere buone per te) che presuppone che ci sia una “cura” certa a una condizione di “malattia” certa che è nostro compito somministrare anche nel caso in cui le persone neghino di esserne affette e neghino beneficio a quelle cure.
Cosa ci sia di diverso fra il “diritto alla cura” invocato da Dell’Acqua e quello invocato dai fautori della terapia elettroconvulsivante che dichiarano che non è degno di un paese civile negare tale terapia salva vita a centinaia di poveri malati, mi sfugge.
Sia l’uno che gli altri sono sinceramente convinti di aver trovato una strada per rispondere ad un disagio/malattia e ritengono che il “diritto alla cura” consista nel garantire a tutte le persone l’accesso ad essa (anche contro la loro volontà).
Il problema però probabilmente non è di Dell’Acqua. Il suo ragionamento infatti appare sensato e del tutto logico. Un’ipotesi che molti abbracciano e riconoscono come propria. Non credo in alcuna velleità autoritaria o repressiva in quanto propone, ma vedo e conosco la sincera volontà di stare nelle cose e cercare soluzioni a problemi concreti e complessi.
Il problema, dicevo, forse è solo mio perché ho creduto (e credo ancora) in un rapporto con le esperienze extraordinarie che sia frutto di un confronto diretto, paritario e collettivo fra persone, alla ricerca di equilibri e possibilità di cittadinanza e convivenza che non distrugga il senso, la verità e l’esistenza delle esperienze e dei punti di vista di tutti. Per questo sono per l’abolizione del Tso. Per questo da 25 anni pratico esperienze che fanno a meno della psichiatria e rifiutano ogni forma di coazione. Per questo credo sia importante, per cambiare registro, disarmarsi unilateralmente, rinunciare a fare o a imporre il bene dell’altro (la nostra “cura”, la nostra “soluzione”).
Non è una cosa rivoluzionaria, è l’esperienza pratica di centinaia di persone che riprendono in mano la loro vita nonostante la psichiatria (o attraverso l’opportunità offerte da tecnici che ne accettano il punto di vista e smettono di imporre il loro).
Ho sentito spesso parlare di accettare il rischio di stare in relazione con l’altro, di confrontarsi con la sua esperienza. Ma non c’é rischio e non c’é cambiamento se una delle parti ha il potere di definire la relazione o imporre la sua visione delle cose. L’unico rischio che rimane è quello in capo agli operatori che provano a rifiutare la coazione come modalità di relazione e che “rischiano” stante la normativa vigente incriminazioni e denunce (in maniera numericamente più rilevante) di coloro che praticano la coercizione e la contenzione.
Io credo che abolire il Tso significa liberare tutti. Certamente ciò potrebbe anche, come dice Dell’Acqua, deresponsabilizzare tutti. Può darsi, ma ho sempre pensato che mondo sarebbe stato se gli psichiatri manicomiali si fossero “deresponsabilizzati” nel dare aiuto ai loro internati. Se la lobotomia, l’elettroshock, lo shock insulinico non si fossero potuti praticare per mancanza di consenso. Se le porte di tutte le strutture psichiatriche fossero aperte (per legge e non per scelta autonoma di chi vi lavora) e nessuno potesse esservi costretto. Le cose sarebbero cambiate e cambierebbero in un batter baleno e le psichiatrie non potrebbero che diventare tutte dialoganti e ritornare ad avere una voce degna di essere ascoltata e con cui dialogare.
Fino ad allora chiederemo l’abolizione del TSO (petizione online http://www.avaaz.org/en/petition/abolizione_del_trattamento_sanitario_obbligatorio_in_psichiatria/?cbdzRab) e intanto porteremo avanti regione per regione le nostre proposte per far si che si dia attuazione e sostanza ai diritti (se pur minimi) che la legge offre alle persone sottoposte a Tso (in atto la campagna è attiva in Sicilia e Lazio ed è aperta alle adesioni delle organizzazioni che vogliono passare dalle parole ai fatti. Pagine Fb “http://www.facebook.com/events/404854549606200/”. Cordialmente Giuseppe Bucalo