di Gian Piero Fiorillo

Credo sia necessario un viaggio alla radice delle nostre virtù e dei nostri errori. Per ripensare nel suo complesso la vicenda che ci ha portati fin qui, interrogarci sulle parole dette, sulle cose fatte, sulle proposizioni principali che non intendiamo mettere in discussione ma che hanno finito per diventare un porto tranquillo al riparo dai flutti minacciosi.

Non basta aver condotto in porto la barca, prima o poi bisogna riprendere la navigazione. Altrimenti la 180 diventerà, come le colonne d’Ercole per i nostri antenati, il simbolo di una superstizione. Non la si può nominare quando governa la destra, se no la cancellano. Né quando governa la “sinistra”, per non fare il gioco dell’avversario. Intanto la destra ci prova ogni volta a cambiarla, e prima o poi ci riuscirà. Mentre la “sinistra” indice conferenze, seminari, distribuisce premi e prebende, si pavoneggia davanti a uno specchio di piccole brame. Costringe gli operatori più validi a confinare il proprio impegno nel piccolo del proprio servizio, in una pesantissima apnea sociale.

Il viaggio alla radice della nostra storia può incominciare dall’attualità, dagli “attacchi alla 180” – come giustamente ma ormai troppo automaticamente tendiamo a caratterizzare ogni tentativo di legiferare sulla psichiatria.

Giustamente, dico, perché la psichiatria non ha bisogno di alcuna legge speciale, e perché la cancellazione della riforma si inscrive in un disegno cosciente di cancellazione di una stagione politica. Ma anche automaticamente, cioè senza interrogarsi più sulle idee che dettarono la riforma, senza articolarle, senza sottoporle alla verifica della storia, senza valutare il grado di attuazione dei principi e lasciandone il compito a pochi centri accreditati, benemeriti ma che non sfuggono alle distorsioni tipiche dei valutatori di professione.

La 180

C’è chi considera la legge 180 il problema e chi la soluzione. I primi la vogliono cancellare, i secondi la difendono. Ma c’è un’altra possibilità: che la 180 sia un enorme problema e che tuttavia sia da difendere, talvolta persino contro i suoi stessi sostenitori.

La 180 ha aperto scenari e conflitti, non li ha chiusi. Nella sua formulazione li apre ancora oggi, ma in troppe situazioni prassi distorcenti e ideologie pseudo-scientifiche l’hanno trasformata in alibi per una neo-istituzionalizzazione camuffata da libertà.

Troppi paladini della 180 difendono piuttosto la neo-istituzionalizzazione che la legge. È così che la critica dell’esistente – gioco facile – resta in mano a una destra che non si accontenta e spinge verso soluzioni manicomiali.

Ma poiché questa spinta alla contro-riforma trova terreno fertile e sostegno pubblico, cercherò di sintetizzarne gli argomenti portanti e di capire in quale modo possano essere confutati.

Sorvolo, in questa mia esposizione, sulla barbarie culturale soggiacente a tutte le proposte di legge fin qui presentate, che trasudano razzismo, paura, piccolo calcolo, senza contare la distruzione della lingua italiana ad opera dei proponenti.

Trascuro tutto questo non per regalare un bonus agli avversari, ma perché:

1) ritengo che anche le proposte più orribili sorgono – o perlomeno vengono alimentate – dalla insostenibilità della situazione attuale (escludendo i pochi casi in cui le cose vanno meglio);

2) ritengo inoltre che gli avversari vadano affrontati politicamente sfruttando tutte le loro debolezze, ma sul lungo periodo bisogna avere ragione degli argomenti avversi nella loro purezza, altrimenti si ripresentano continuamente;

3) per questo credo che la possibilità intravista da Massimo Cozza (incontro di Roma, maggio 2009) di confutare i sostenitori dell’abrogazione della legge sostenendo che un TSO prolungato è possibile anche oggi senza bisogno di cambiare la 180, sia un argomento che può tornare utile in alcuni momenti (“a livello tattico”), ma non può essere il nostro argomento strategico, pena lo svilimento di tutto il movimento che, pur con molte sfaccettature, è sempre stato un movimento “di liberazione” (non per niente i passaggi più tribolati del cammino della riforma furono la sanitarizzazione della follia, sancita definitivamente con l’assorbimento della 180 nella 833/78, e la problematica del TSO);

4) e per questo considero indispensabile e ottimo il lavoro di confutazione delle singole proposte legislative portato avanti con impressionante metodicità da Luigi Benevelli, ma penso che bisogna riflettere anche su livelli più generali.

1. Esposizione del primo argomento della contro-riforma e riflessioni in merito.

(Premetto che uso il termine contro-riforma in senso tecnico, come riforma della riforma, senza gravarlo per ora di un giudizio negativo).

Ammettiamo, dicono i sostenitori della contro-riforma, che la legge 180 è stata una legge di civiltà, ma solo perché le condizioni dei manicomi nel dopoguerra erano scandalose e non c’erano sistemi efficaci di cura. Oggi le cose sono cambiate. La scienza è andata avanti, ugualmente la coscienza dei diritti degli ammalati: ci sono più mezzi di controllo e l’opinione pubblica è attenta. Inoltre, noi non vogliamo realizzare i grandi contenitori del passato, veri e propri campi di concentramento per matti, ma una rete di piccole e medie strutture di tipo residenziale e sanitario. All’interno di queste strutture si può avere quella garanzia di continuità terapeutica che altrimenti non è data.

Per fare un esempio, i farmaci.

Si sa, continuano i sostenitori della contro-riforma, che gli psicofarmaci hanno effetto solo se assunti in maniera regolare, per periodi di tempo prolungati e a volte per tutta la vita. Ma si sa anche quanto sia difficile che le prescrizioni e le modalità d’assunzione vengano rispettate, almeno nella situazione odierna. La compliance dei malati di mente è infatti scarsissima.

Intanto perché non tutti riconoscono di essere tali, e quindi rifiutano l’assunzione di sostanze a cui attribuiscono ogni malessere, fisico e psichico; per non parlare poi di chi ha paura di essere avvelenato. Ma anche chi riconosce la necessità di prenderli, e in questo modo riconosce la propria condizione di malato, si stanca presto, soprattutto in assenza di risultati terapeutici evidenti e in presenza di effetti collaterali invalidanti. E dunque tende a smettere di colpo o a modificare le dosi secondo valutazioni soggettive e percezioni di benessere/malessere del tutto estemporanee. I comportamenti dei malati di mente sono per definizione irregolari e i loro propositi inaffidabili, quindi lasciare loro la responsabilità di una corretta assunzione farmacologica è delittuoso e a farne le spese sono soprattutto i familiari.

Dopo questa tirata sugli psicofarmaci i critici della 180 non dimenticano di aggiungere che la stessa cosa vale per le psicoterapie, la riabilitazione ecc.

Se i malati di mente sono in una struttura protetta, dicono, tanto l’assunzione di farmaci quanto la psicoterapia e la riabilitazione avranno massima regolarità, potranno essere definite in base a un progetto terapeutico il cui sviluppo potrà venire controllato periodicamente e di volta in volta calibrato sui bisogni di ciascuno.

Oggi invece, continuano con ineguagliabile perfidia i contro-riformatori, si presta attenzione solo alla malattia, e non al malato.

Così dopo un ricovero il malato torna a casa e tutto ricomincia come prima. Cessa di prendersi cura di sé e di nuovo il peso delle cure ricade sui familiari, pena l’abbandono e il degrado individuale. In questo modo si creano forti tensioni in famiglia e nell’ambiente sociale d’appartenenza, cosa che contribuisce a rafforzare lo stigma sociale.

Tutto questo genera a sua volta pesanti distorsioni.

I medici più responsabili, proprio perché sentono la responsabilità della situazione, tendono a massimizzare gli effetti della cura e per questo si affidano a sovradosaggi farmacologici durante i TSO, anche a causa della loro brevità. Diventano necessarie le contenzioni per evitare fuga e interruzione del trattamento; diventa necessario ricorrere a farmaci a lento rilascio, con la conseguenza che gli effetti avversi si moltiplicano e finiscono fuori controllo, poiché non si possono attuare quegli aggiustamenti continui della terapia che ne consentirebbero la riduzione, insieme a una maggiore efficacia clinica.

Quanto a psicoterapie e attività di riabilitazione, training di rinforzo, gruppi ecc., i terapeuti hanno le mani legate. Se il paziente non vuole, non vuole. Basta che non si presenti agli appuntamenti. Non si può mica andarlo a prendere a casa tutte le volte.

Per quanto possa sembrare strano questo argomento, che si presenta come «l’argomento nobile» della contro-riforma, si fonda sull’attenzione alla persona e sul diritto alla cura.

Non sono così sciocco da non coglierne la portata strumentale, le forzature argomentative e l’impostazione autoritaria. Ciò non di meno resta un argomento efficace, perché fa leva sull’esasperazione e i sensi di colpa delle persone vicine al paziente e a volte anche del paziente stesso.

Per confutarlo sarà necessario svelarne tanto le debolezze interne quanto la non-coerenza con le varie proposte di riforma. Bisognerà almeno:

Non negare l’evidenza, cioè il fatto che oggi in generale non si pensa molto al malato ma (quando va bene!) alla malattia. È sorprendente che la critica della situazione attuale venga lasciata alla destra, mentre la “sinistra” si preoccupa di difendere l’esistente, indifendibile.

Quindi si dovrà dimostrare che le attuali condizioni sono – almeno in potenza – assai più favorevoli alla personalizzazione delle cure e al dettato della importanza primaria del malato sulla malattia, di quanto sarebbero in regimi legislativi contro-riformatori.

Non solo, ma si dovrebbe dimostrare che nella situazione attuale si ha maggiore continuità terapeutica rispetto a regimi di internamento, e un maggiore rispetto dei diritti fondamentali dei pazienti, compreso il diritto alla cura nella sua declinazione più cristallina (non quella sottospecie di “diritto alla cura” che si traduce praticamente in obbligo e passivizzazione).

Inoltre, quanto al tema del controllo, ci sarà da opporre, all’invocato e dato per risolutivo controllo del medico sul paziente, il controllo del paziente (e dei familiari, amici, associazioni) sul medico.

Ci sarà da spiegare ancora una volta come e perché il binomio “farmaci e manette” non significa affatto maggiore sicurezza sociale.

Ma «l’argomento nobile», che si fonda anche sulla fede assoluta nella pratica psichiatrico-farmacologica e sull’oblio di alcuni passaggi non proprio secondari, impegna a rispondere ad altre alcune questioni cruciali.

È vero che la scienza ha fatto così tanti progressi dal 1978 ad oggi?

E di quale scienza parliamo? Delle neuroscienze? È stato davvero così determinante l’apporto delle neuroscienze alla psichiatria? In cosa consiste? Che rapporto c’è fra neuroscienze e psicofarmacologia? Quest’ultima è “nient’altro che” l’applicazione terapeutica delle prime, come viene oggi dato a intendere, o vi sono distorsioni concettuali e propagandistiche senza i quali il passaggio non sarebbe attuabile?

Nel rifiutare l’istituzionalizzazione in quanto risposta al problema della continuità terapeutica, bisognerà opporre la praticabilità attuale di una presa in carico continua nel tempo e inoltre dimostrare che oggi non v’è istituzionalizzazione.

Poiché quest’ultimo punto è davvero difficile da sostenere e ancor più da dimostrare, sarà allora il caso di indagare sui modi d’essere dell’attuale “neo-istituzionalizzazione”; dare vita cioè a un lavoro di ricerca socio-antropologica che indaghi sulle relazioni fra istituzione, operatori, pazienti e altri soggetti coinvolti. Parlo di relazioni formali e informali, di quei rapporti che costituiscono il legame sociale e contemporaneamente la forma di questo legame. Per essere chiaro, sto parlando di quei rapporti che definiscono i ruoli verticali e gerarchici di un mondo sociale, dei cancelli invisibili che definiscono distanze e disuguaglianze anche in assenza di sbarramenti fisici. Parlo di quelle consuetudini o incidenti storici che diventano istituzione e nessuno ci fa più caso (fra queste personalmente annovero la bizzarra idea che ad occuparsi della follia debbano essere dei laureati in medicina – ma questa è solo una precisazione personale, inutile ai fini del lavoro concreto sul quale è necessario concentrare l’attenzione).

L’argomento, pur con tutte le sue lacune, crea altri imbarazzi che è bene non nascondere sotto il tappeto.

Come la mettiamo col problema delle residenze che, abbiamo visto, si collega a quello della continuità terapeutica? Anche qui bisognerà fare un quadro realistico. Di residenze c’è bisogno. Non so se è un bisogno naturale, assoluto o storicamente determinato. Quello che so è che la “riforma realizzata” non ha saputo fare a meno di residenze psichiatriche di vario tipo e diversi gradi di “protezione”: dalle numerose formule di casa-famiglia (se si fa un giro per l’Italia si scopre che sotto la stessa etichetta si nascondono realtà molto diverse) alle comunità pubbliche, private, convenzionate, alle cliniche, agli stessi SPDC che in molti casi hanno funzionato da residenza, visti certi ricoveri protratti per mesi e anche per anni (il che dimostra come i ricoveri prolungati siano possibili anche oggi, ma almeno sono visti come problema e non come soluzione). Di fatto una rete di residenze psichiatriche – piccole, medie e grandi – è già esistente in Italia: cosa cambierebbe con una nuova legge e cosa verrebbe invece semplicemente confermato? Gli internamenti contro i quali giustamente ci battiamo non sono certo assenti allo stato attuale: Serra d’Ajello ne è solo un esempio.

Esprimersi sulle residenze non vuol dire solo fare dichiarazioni di principio. Vuol dire disporsi ad azioni di un qualche genere, coerenti con le dichiarazioni. Valutare le forze, decidere di agire, farlo.

E fare anche un po’ di conti. In molti DSM (non ho dati precisi, se qualcuno li ha potrebbe tirarli fuori) i costi delle residenze sono di gran lunga la spesa maggiore rispetto a tutte le altre, ad eccezione forse del costo del personale. Rispetto ai costi delle attività riabilitative (che pure vengono continuamente tagliate) la differenza è enorme. Fare bene i conti di quanto, in Italia e nelle singole regioni, vengono a costare le residenze psichiatriche ci aiuterebbe magari a definire meglio la richiesta del famoso 5%; si potrebbe scoprire per esempio che al capitolo psichiatria e salute mentale già oggi, in molti luoghi, è destinato ben più che il 5% della spesa sanitaria – solo che non va a finire nei servizi pubblici, ma foraggia privati (onesti e disonesti). Anche l’argomento della razionalizzazione della spesa, io credo, non va lasciato alla destra. Che ne fa un uso, diciamo così, non sempre corretto.

Il problema delle residenze è attualmente molto dibattuto. Non sarebbe male collegarsi ad altri che se ne stanno occupando e vedere a che punto sono.

Alla questione “residenze” si collega, attraverso passaggi argomentativi e psicologici ora semplici ora sofferti, un altro tema cruciale, quello del “dopo-di-noi”. È un tema che angoscia moltissimi genitori di pazienti giovani o non più giovani. È un tema conosciutissimo, non solo in psichiatria, per cui evito di esporlo. Anche su questo bisogna però confrontarsi, pena una forte perdita di credibilità.

In sintesi ritengo che l’argomento nobile della contro-riforma, quello della continuità terapeutica e della cura secondo i bisogni della persona, necessiti di risposte articolate. In questa lettera non posso che cominciare a porre qualche domanda e abbozzare qualche vaga proposta. Altre, più precise, dovrebbero venire dal dibattito, e anche una migliore messa a fuoco delle varie questioni: purché non si continui a dare risposte preconfezionate.

***

Parentesi numero 1.

A proposito di dibattito, sono veramente commosso per la vasta risonanza e la ricchezza del confronto suscitato dalle mie lettere al Forum.

Ad ogni modo, se deciderò di continuare ad abbaiare alla luna cercherò anch’io di avvicinarmi progressivamente a una maggiore individuazione di problemi e risposte. Dice il saggio: fino a quando sorgerà la luna sui campi, lupi e poeti non saranno soli.

***

2. Esposizione del secondo argomento della contro-riforma e riflessioni in merito.

Vi è poi un secondo argomento implicito nelle proposte di abrogazione della 180. Lo chiamerò “l’argomento plebeo” perché è quello che ha sicuramente più effetto presso la popolazione in generale, i non-addetti, i lettori di quotidiani, gli spettatori televisivi.

È l’argomento della pericolosità sociale.

In tutte le proposte di contro-riforma viene dato per scontato che i malati di mente siano pericolosi a sé e agli altri: la formula è tornata di moda, la si sente spesso anche in contesti conviviali, e vengono riportati a dimostrazione numerosi fatti di cronaca. Sui quali non ci si interroga molto, si sostiene o si dà ad intendere che quei fatti sarebbero evitati se vi fosse una presa in carico istituzionale del colpevole – o meglio del “malato” – che in questo modo sarebbe messo nella condizione di non nuocere. Insomma un carcere preventivo per chi venga sospettato di una ipotetica pericolosità futura. Le frasi “era in cura presso un centro d’igiene mentale” e “assumeva psicofarmaci” sono offerte ai cittadini non solo come evidenza di malattia mentale ma anche della riconducibilità ad essa del folle gesto.

Si tratta quasi sempre di argomentazioni circolari: è folle perché ha ucciso / ha ucciso perché folle. Ma fanno presa. Nessuno si mette lì a fare l’analisi logica delle affermazioni di un telegiornale, quindi il messaggio “passa”. Raggiunge gli spettatori, che lo fanno proprio, pronti a usarlo come unità di giudizio preconfezionato. Siamo in presenza di un classico stereotipo che, a causa della vasta condivisione sociale, agisce da leva politica e si presta assai bene a strumentalizzazioni propagandistiche.

L’argomento della pericolosità è stato confutato molte volte. Ma sempre risorge e non può essere trascurato anche se costringe ad addentrarsi in quartieri dove il sole del Buon Dio non dà i suoi raggi. Perlomeno per due motivi.

Il primo è che la risposta dei riformatori all’argomento è sempre di tipo statistico.

È dimostrato, si dice, che i folli non sono più pericolosi dei “normali”, i malati di mente non più dei sani. Questo argomento è stato esposto anche recentemente sul Forum, attraverso le diapositive di Andrea Barbato. Nelle conclusioni Barbato sottolinea che: a) il contributo delle persone con disturbi mentali al tasso di violenza nella società è trascurabile; b) le persone con disturbi mentali presentano un rischio elevato di subire violenza.

Queste conclusioni sono note, e tutte le ricerche le confermano.

Cosa dunque non va?

Il primo guaio è che l’argomento statistico non conforta chi deve fare i conti quotidianamente con una persona (sana o malata) violenta. Non si cura né si conforta chi è colpito da una malattia rara ricordandogli la frequenza statistica della stessa.

Inoltre, si parla in questi studi di violenze di una certa gravità: uccisioni, lesioni gravi ecc. Non vengono considerati quei piccoli atti di violenza che non arrivano all’attenzione dei media e spesso neanche della polizia: minacce, ricatti, vessazioni che rendono la vita impossibile.

Non c’è più la tendenza in voga qualche anno fa di attribuire la colpa agli altri e considerare il nostro paziente una vittima designata, tuttavia non ce la sentiamo di individuarlo come responsabile di ciò che accade. Anche in questo caso, come in molti altri, ci sono ragioni e motivi a iosa che giustificano questa prudenza nel giudizio. Purtroppo la conseguenza di questa tendenza a non considerare il paziente “responsabile” porta a considerarlo, e renderlo realmente, “irresponsabile”.

La tautologia è solo apparente, perché da “non responsabile” a “irresponsabile” il salto semantico e di realtà è tale da rendere la questione della responsabilità un campo dei miracoli e un labirinto di equivoci.

Ma c’è altro, e di notevolissima importanza.

Seppure mai o quasi mai messo in luce, il paradigma della pericolosità sociale, ancorché negato a parole, è al contrario REALMENTE OPERANTE NEI SERVIZI DI SALUTE MENTALE. NE È ANZI IL PARADIGMA IMPLICITO PORTANTE. È paradigma operante a livello teorico, psicologico e operazionale, e informa di sé i servizi e i singoli operatori.

Altro che Spirito della Legge, è lo Spirito della Pericolosità ad animare quasi tutti gli SPDC e CSM, la maggior parte delle Comunità Terapeutiche, un rilevante numero di Centri Diurni e altro. Per non dire dei servizi privati, di cui si sa poco ma quello che trapela è sconfortante.

Il paradigma della pericolosità è potente. Detta comportamenti, relazioni, diagnosi, terapie.

È diffuso e spesso opera silenziosamente, senza giungere alla chiara coscienza di chi lo agisce.

È articolato: si collega al paradigma dell’inguaribilità, all’idea dell’origine genetica della malattia mentale, al mandato storico-sociale della psichiatria, alla domanda di sicurezza, al pregiudizio diffuso ecc.

È fondato su una lettura monca, illusoria o distorta del reale, ma non è “campato in aria”.

Il paradigma della pericolosità sociale comporta come atto operativo conseguente l’uso routinario della contenzione fisica e farmacologica, anche quando quest’ultima non è dichiarata né percepita come tale.

Comporta inoltre la sottovalutazione costante degli effetti avversi dei farmaci, la sopravvalutazione degli effetti terapeutici, la fede (o almeno la speranza) non suffragata dai fatti che la contenzione farmacologica possa avere effetto perpetuo.

Il non verificarsi di quest’ultima ipotesi comporta a sua volta non, come sarebbe lecito aspettarsi, una riduzione dei dosaggi e la ricerca di altre vie, bensì un continuo e progressivo aumento delle dosi, fino a raggiungere in certi casi livelli disumani e criminali.

Il paradigma della pericolosità si traduce nell’imperativo etico-operazionale “disinnescare e mantenere”: disinnescare la crisi psichiatrica con qualunque mezzo, quindi mantenere il paziente in uno stato di non-crisi a qualunque costo. Questo imperativo si giustifica col paradigma della pericolosità camuffato dal famoso “primo non nuocere”: se il paziente può essere un pericolo per sé o per gli altri allora il mio primo dovere sarà quello di evitare esiti distruttivi. Inutile dire che a questo punto il vero nemico da combattere diventa l’aggressività del paziente, la cura diventa una battaglia, si perdono occasioni di cambiamento nell’estenuante tentativo di “ridurre alla ragione” medica il paziente. Questa riduzione, operata a qualsiasi prezzo, viene considerata il vero successo terapeutico. Ma per raggiungere questo risultato la medicina ha una sola via: dis-abilitare il cervello. Da sempre la psichiatria ha perseguito la disabilitazione cerebrale come obiettivo e come mezzo: per annullare la crisi, per mantenere il paziente in uno stato di non-crisi. Elettroshock, coma insulinico, lobotomia, psicofarmaci hanno la funzione di disabilitare il cervello. Controllare ed evitare la crisi attraverso questa disabilitazione.

Al termine di questa battaglia vengono confinati i programmi riabilitativi. Infatti, nella stragrande maggioranza dei casi solo quando questa dis/abilitazione sarà stabilizzata si dà inizio ai programmi di ri/abilitazione.

E anche se a quel punto non si capisce più se si tratta di riabilitazione dall’invalidazione della malattia o da quella della terapia, viene data per scontata e indubitabile la prima opzione.

In questo processo accadono dunque alcune cose che andrebbero poste sotto la lente d’ingrandimento dell’intelligenza, e invece vengono trascurate o negate.

Uno: la disabilitazione e l’effetto terapeutico coincidono.

Due: la disabilitazione crea (è) proprio quella malattia del cervello che la terapia sostiene di combattere.

Tre: siamo in presenza di una riduzione alla ragione medica che è al contempo la riduzione della follia a malattia mentale. Ma questo non avviene soltanto nella mente del medico, dei legislatori, dei familiari, degli spettatori televisivi pieni di pregiudizi ecc. Questo avviene realmente, nel corpo del paziente psichiatrico. La sua follia ora è malattia del cervello. Ora finalmente la medicina ha creato l’oggetto su cui intervenire, su cui ritiene di avere le competenze per intervenire. Peccato che queste competenze si siano finora rivelate all’atto pratico del tutto inefficaci. Una volta che la medicina ha danneggiato il cervello del “folle” non sa più come fare per ripararlo. Lo consegna ai servizi di riabilitazione, sapendo che nel maggior numero di casi si andrà incontro alla cronicizzazione.

Questo processo, che in sé ha del folle e del pericoloso ma viene socialmente accettato in nome del mandato terapeutico, è stato sottolineato da Franco Basaglia (e non solo).

Una sua frase frequentemente riportata è la seguente:

«Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. E’ una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società riconosce la follia come parte della ragione, e la riduce alla ragione nel momento in cui esiste una scienza che si incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragione di essere, perché fa diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita.» (Conferenze brasiliane, 1979).

Questa notissima citazione, che andrebbe analizzata frase per frase, ha due snodi fondamentali: il primo, il più ricordato, è che “in noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione” con la conseguenza che una società, per dirsi civile dovrebbe accettare tanto la follia quanto la ragione.

Ma il secondo passaggio cruciale è spesso dimenticato: “Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato”.

Questo passaggio può essere allargato: quando qualcuno è folle ed entra in relazione con la psichiatria smette di essere folle per trasformarsi in malato. Infatti lo psichiatra non lo considererà mai più folle (persino la parola è oggi considerata obsoleta), bensì malato.

Ma la psichiatria non si limita a questa “considerazione” di malattia. Agisce in modo da trasformare realmente il folle in malato; esattamente come avveniva in manicomio.

Là il cervello era disabilitato da elettrochoc, coma insulinico, isolamento prolungato ecc. Oggi la stessa disabilitazione avviene perlopiù attraverso gli psicofarmaci. È più lenta, meno visibile, all’apparenza meno disumana ma ugualmente, terribilmente, efficace.

Così come in manicomio, anche oggi molti degli effetti del trattamento psichiatrico vengono attribuiti alla malattia, al comportamento o alla cattiva volontà del paziente ecc.

Questo processo è arduo da ricostruire.

Ci troviamo di fronte a veri “paradossi della cura psichiatrica”.

Per non appesantire questa lettera già troppo carica rinvio la discussione di questi paradossi a una prossima lettera.

***

Parentesi numero 2.

La butto qua e per ora la lascio com’è: chi sostiene che gli psicofarmaci regolino le funzioni cerebrali e della neurotrasmissione, il cui squilibrio causerebbe la malattia mentale, non sa cosa dice o è in malafede. Ma anche questa, direbbe Michael Ende, è un’altra storia e bisognerà raccontarla un’altra volta.

***

Il paradigma della pericolosità comporta inoltre che – a torto o a ragione, qui non discuto di questo – non si scommetta MAI davvero sulla terapeuticità della parola (psicoterapia) né tanto meno sulle prassi ri-abilitative, psicosociali, risocializzanti, le quali vengono ridotte al rango di contorno inessenziale, intrattenimento, e dunque tacitamente ricacciate verso una funzione di riduzione del danno psichiatrico, funzione peraltro non riconosciuta (anzi, chiunque la sostenga viene considerato un provocatore abituale).

Ovviamente, data la situazione, persino centrare il modesto obiettivo della riduzione del danno diventa improbabile, e la fatica improba. Perché il danno biologico derivato dal prolungato uso di psicofarmaci (principalmente di neurolettici ma non solo) è molto difficile da riparare.

Questo processo, qui sintetizzato per sommi capi, CONFERMA MENTRE LO COSTRUISCE il sistema paradigmatico fondato sulla credenza nella pericolosità sociale del malato di mente e sulle connesse credenze dell’inguaribilità, della cronicità, della irrecuperabilità.

Ma questa conferma avviene nel momento in cui il cerchio della violenza istituzionale si va a chiudere. Ed è quasi pleonastico, ma non inutile, dire che della violenza istituzionale fa parte anche la negazione verbale del paradigma stesso. Che QUANTO PIÙ VIOLENTEMENTE VIENE NEGATO TANTO PIÙ AGISCE SUI (E TRAMITE I) SOGGETTI COINVOLTI.

A cosa, a chi serve dunque cavarsela con il ricorso sistematico all’argomento statistico? Che, ci tengo a ripeterlo per evitare facili obiezioni, è validissimo. Ma insufficiente.

Non è forse il caso di affrontare diversamente il problema, di guardarlo senza chiudere gli occhi?

Nei miei quindici anni di carriera in salute mentale (carriera per modo di dire, se mai è stata una carriera del gambero) ho assistito e sono stato coinvolto in alcuni episodi di violenza. Pochi, in rapporto al numero di giorni in cui ho frequentato diverse tipologie di servizi psichiatrici. Pochi, ma non “zero”. Abbastanza da convincermi che una riflessione seria sia da iniziare. Altrimenti, ancora una volta, sarà la psichiatria biologica più ortodossa ad occuparsene, e la psichiatria alternativa rimarrà a guardare continuando la litania degli argomenti fissi, che hanno da tempo perso il loro potere d’incanto e quello di convinzione.

Il discorso deve essere quindi un altro, da affiancare alle evidenze statistiche.

Ma qQQQuale? Di cosa si deve comporre questo discorso “altro” sul binomio follia/violenza?

Innanzitutto del riconoscimento esplicito e non a denti stretti che atti violenti, piccoli o grandi possono essere compiuti durante una crisi psichiatrica, nel corso di una terapia, nel lungo viaggio verso la “guarigione”.

Poi della confutazione del “raptus di follia” (inesistente, è sempre una storia che porta all’atto folle, nessuno si alza la mattina e tout court si mette a picchiare la gente per strada).

Altro punto, è ora di smetterla con l’idea che gli psicofarmaci siano in grado di azzerare l’aggressività – a meno di non parlare di sostanze particolari e dosi così massicce da annullare ogni volontà nell’individuo. Negli altri casi l’aggressività si ripresenta, magari dopo un più o meno lungo periodo di contenimento, e i farmaci stessi possono contribuire a farla esplodere. Si pensi per esempio alle numerose documentazioni sui suicidi di adolescenti indotti dall’assunzione di antidepressivi, o agli atti di violenza compiuti da persone in terapia psicofarmacologica (in questi casi l’accento è sempre posto sulla malattia e/o sulla mancata assunzione di farmaci al momento dell’atto, mai sull’assunzione stessa).

Quello che tocca fare è cercare nelle storie individuali e nella storia sociale i processi di costruzione della violenza. Anche qui senza accontentarsi di frasi fatte (colpa della televisione, di Internet, della povertà, ecc.) ma senza trascurare nessuna tra le variabili imputate di concorrere all’atto violento.

Toccherà soffermarsi sulle nostre risposte, quelle attuali e quelle possibili, alle mamme o papà che vengono al servizio chiedendoci di chiudere il loro figlio, almeno per un po’ – per avere un po’ di respiro, perché “così non possiamo più andare avanti”.

Come rispondono oggi i servizi a una richiesta, disperata, di questo tipo? Già, come rispondono?

Quali potrebbero essere invece risposte alternative?

Spero che il Forum riesca a promuovere discussioni su questi problemi. Non che il depliant della ennesima iniziativa fotocopia della precedente non sia interessante, no. Ma insomma, un piccolo sforzo, diamine…

***

Interrompo qui questa comunicazione, e mi accorgo che è un’interruzione brusca.

Seguiranno altre lettere, spero, in cui cercherò di spingere verso una definizione sempre più accurata delle questioni in campo. Ripeto che per fare questo conto ancora sull’apporto critico degli amici del Forum.

***

Altre questioni.

Visto che per forza di cose queste lettere sono immerse nella cronaca vorrei intervenire sulla segnalazione di Assunta Signorelli in merito alla morte della signora Rosetta (non conosco il cognome). Anche le cause e le circostanze dell’accaduto mi sono ignote. Potrebbero esserci delle responsabilità di vario tipo, come la stessa Assunta (mi sembra) ha suggerito.

Penso che come Forum dovremmo costituire un osservatorio sui diritti degli utenti della psichiatria (a partire dal “consenso informato”) e un comitato col supporto di avvocati disposti a condurre battaglie legali in tutti quei casi in cui negligenza o malasanità producono effetti lesivi della dignità o integrità fisica degli psichiatrizzati.

Penso anzi che questo sia un nostro dovere, e un modo per ridare senso al Forum.

Questa è la mia proposta principale per il lavoro futuro. Non è una novità, ma non ha importanza.

(Parentesi: ho scritto questa lettera in maggio-giugno, ma per vari motivi la spedisco solo adesso. Nel frattempo ho visto che si è costituito un Comitato, in Calabria, in merito alle vicende di Serra d’Ajello. Mi piacerebbe saperne di più, e forse da lì potrebbe partire il primo nucleo di un comitato permanente sui diritti dei nostri utenti).

Chiudo con due parole sull’incontro di Roma.

A me sembra che ci siano delle tendenze divergenti dentro il Forum.

Una di queste è fra chi ritiene prioritario difendere ciò che è acquisito – in soldoni il fatto che in Italia non vi siano, ufficialmente, i manicomi – e chi ritiene insostenibile la situazione attuale, quindi prioritaria l’azione di denuncia.

Secondo questi ultimi inneggiare alla 180 senza soffermarsi criticamente sulla situazione attuale è un atto di mistificazione che favorisce le iniziative “securitarie” della destra.

Un’altra divergenza è sul terreno delle cosiddette alleanze.

Una parte del Forum ritiene di doversi muovere a livello istituzionale, seguendo pedissequamente le agende e le iniziative di regioni, ministeri, partiti, sindacati associazioni e gruppi dai grandi apparati; un’altra parte considera invece la necessità di agire negli spazi interstiziali del mondo sociale, dove la colonizzazione della politica mercenarizzata non è ancora arrivata. Quindi muoversi con gli individui, i piccoli gruppi non formalizzati, le piccole associazioni locali, la pochissime cooperative che non hanno tradito il mandato solidaristico originario, le situazioni che permettono una reale democrazia partecipativa. Questi spazi ci sono e costituiscono risorse e possibilità inimmaginabili.

Sulla questione dell’esistenza del Forum, se esso debba sopravvivere o meno all’inedia che lo ha colto, mi sembra ci sia una sostanziale propensione al sì, ma anche una domanda insistente sul come e perché. Che non è solo questione di alternativa fra movimento e associazione, ma anche di ridefinizione complessiva di metodi, obiettivi a breve termine e strategie. È anche la questione di creare una reale, e non solo dichiarata, democrazia interna.

Spero che queste istanze non finiscano col ridursi a qualche ritocco moroteo al Documento Programmatico.

Cordialmente, Gian Piero Fiorillo

P.S. Mi scuso per la lunghezza e alcune ripetizioni dettate dal tentativo di essere il più chiaro possibile.

Write A Comment