Nei mesi scorsi abbiamo discusso molto sul tema “salute mentale” pensando di tenere viva la questione, convinti come siamo che è quanto mai necessario riattivare interessi e ricerche. Chiedemmo a Franco Rotelli di utilizzare questo testo pubblicato in “Quale psichiatria? Taccuino e lezioni”. Cominciamo da oggi a tenere questo filo.

Cos’è salute mentale
di Franco Rotelli

Può essere che la salute mentale sia il contrario della follia. Per quel che mi riguarda io mi immagino che essere folli altro non significhi che prendersi molto o troppo (o del tutto) sul serio. Se sta all’opposto, salute mentale non potrà che identificarsi con l’esercizio della vacuità, dell’insignificante: in sintesi la realizzazione completa dell’essere in malafede e del subire l’ottusa piattezza dell’inerzia. 

Per fortuna tra questi due estremi c’è una ragionevole dose di angoscia che quasi tutti si portano dietro e una ragionevole dose di stolidità e di menzogna che non consente alla prima di travolgere il nostro equilibrio instabile. Equilibrio chissà quanto auspicabile, chissà quanto mediato, reso tale da un contratto sociale che, misurato in merci e prodotti, costituisce la nostra commerciale formazione che tutto sopravanza e che di inclusione/esclusione decide. 

La questione vera è allora quando e perché la produzione di sentire, e un fare condiviso che vi si associ, siano possibili, credibili, dedicati ad altra utilità che non siano le merci. Il socialismo reale ci ha insegnato che via dalle merci c’è l’imbroglio, l’illibertà, l’istituzionalizzazione di un potere astratto fatto di ideologia che si fa concreta e pervasiva violenza: lo Stato. 

Ci si potrebbe immaginare che la salute mentale stia laddove un soggetto può esistere con altri, attraverso il linguaggio comunicare di sé, poter di sé parlare per differenze accettabili, costituirsi per singolarità parziale e parziale comunanza. Costituirsi ed essere costituito laddove inclusione/esclusione si tendono e rischiano tra loro, sul limite sul quale altri possono trattenerti, tu possa trattenerti e insieme possa trovarsi un comune sentire, una prassi comune, un progetto interrelato. 

Se è verosimile che solo il linguaggio ci può salvare, se è verosimile che nella follia ci sia non so se una scelta ma una sicura compiacenza, un vezzeggiamento continuo, una seduzione subita, un arrovello accarezzato, un’identità estrema purchessia, l’altro diventa ancora più decisivo del tuo futuro. Se solo l’altro può salvarti da te, può trattenerti al di qua, può forse anche spingerti di là o lasciarti, abbandonato e naufragato, irrelato, solo di questo è utile parlare.

Molto altro non so. So poi allora che, quando il limite è oltrepassato, il sociale contratto prevede che qualcuno si debba per professione e servizio, per statuale compito, in qualche modo occuparsi di te. E abbiamo pur visto che cosa lì può accadere e vediamo ogni giorno che cosa accade e rischia di accadere. Come lì possa essere cementata l’esclusione, la tua non salute giudicata e oggettivata la malattia (occorrendo però anche essere consapevoli che è forse meglio essere “malati” che indemoniati o simili, con ragionevole dubbio pensando che sia meglio di te si occupi il soi-disant medico piuttosto che un soi-disant esorcista e forse meglio un ospedale piuttosto che l’esilio al limite del villaggio). 

Si tratterà di capire meglio se da lì sia possibile che si riannodino i fili dell’inclusione o si aggravi sempre e solo il fardello di un’esclusione spesso irreversibile e irrevocabile attraverso professioni e servizi dedicati. 

Se è chiaro che salute e malattia sono spesso compresenti nel corpo e nell’anima, se più difficile è dire qui dove l’una, la salute, comincia e l’altra, la malattia, viene colta, difficile sfuggire alla sensazione che le parole non indichino nulla di quel che davvero accade qui. L’inadeguatezza della parola attiene alla loro natura razionalizzatrice che par proprio inadeguata alle peculiarità dell’irrazionale. Usare il linguaggio per entrar dentro la follia è come usare un metro per misurare un liquido. Ma è allora adeguato il linguaggio per parlarci di che cosa sia la salute della mente, di quali ingredienti si nutra una mente in salute e salute agli occhi di chi? Degli altri che mi osservano e giudicano o di me che mi rivolto nel sonno o nella veglia per far fronte alle minacce guerriere che mi sono ogni giorno rivolte e tento così conservarmi in salute? 

E per altro, la secessione dal mondo che è l’esclusione incorporata, l’aggressione interiorizzata e autovalidata, sarà il segno estremo della follia o l’ultimo residuo di mentale salute, difesa a oltranza e contro ogni evidenza? (bisognerebbe poi interrogarsi su questo strano destino: se sia cioè proprio destino che si debba passare il tempo a difendersi dalla “concorrenza”). 

Ma la questione vera resta se abbia qualche senso domandarsi cosa sia la salute o malattia mentale all’interno di un’organizzazione sociale che decide lei cosa sia l’una e cosa sia l’altra. Il controllo sociale pressoché totale fa sì che dalla famiglia al sistema sanitario o sociale “la presa in carico” del presunto disturbo mentale, il giudizio sul venir meno della salute mentale di un individuo, siano in genere precoci e fulminee. Potrebbe essere salute mentale l’essere liberi dalla concorrenza, dalla necessità di produrre più e meglio, dal rischio di esclusione per inadeguatezza rispetto alle leggi del mercato (che possono includere il saper pescare, cacciare, saper di letteratura e teatro, essere sorridenti e spiritosi, saper cantare e ballare, esser pieni di iniziative e fantasie, disinvolti e sommelier, erettili e aggiornati, informatizzati e muscolari e comunque produttori di una qualsivoglia merce in voga). Potrebbe salute mentale essere l’infinito divertimento del riconoscersi finalmente tutti diversi e non perciò diseguali (non voglio andare a cercare in biblioteca se l’uguale radice di “diversità” e “divertimento” abbia ragion d’essere, mi basta pensarlo e mi piace). Cosa invece stabilisce in concreto questa micidiale equivalenza tra salute mentale e omologazione, se non la nostra paura di perderci nel non riconoscimento dei miei omologhi? Anche la letteratura, l’arte, il cibo, la poesia, il teatro sono ormai puri prodotti di consumo, oggetti di conversazione futile come attorno alla qualità di creme di bellezza e degli stock di roba firmata. Il pensiero proprio non esiste più come riconoscibile, oggetto di ironia nel migliore dei casi, la trasformazione del mondo essendo ormai un concetto vuoto di uomini e idee. Se l’unico progetto condiviso è lo Sviluppo (e il consumo) lì sarà l’indicatore di salute mentale o al meglio nella casetta in Toscana dove si coltiva l’orto e il pisello odoroso, mai là dove la fatica del vivere realizza il suo rischio e la sua finitudine, scopre l’uomo nella sua infinita miseria e ne assume però l’onere. 

L’evidente ovvietà di quel che sto dicendo ha singolare non riconoscimento nel novanta per cento delle pratiche di chi fa professione di produzione di salute mentale, le scienze “psy” si dislocano altrove e organizzano pensieri, modelli, pratiche e concetti di tutt’altra natura, sovrapponendo autore e autore in un lungo monologo senza fine, soliloquio potente perché costitutivo di corporazioni di potere-sapere, perché merce che si accumula e capitale che si riproduce, inverificato, gratuito, per lo più autoreferenziale, intangibile per crociati consensi. 

La psichiatria è stata (e lo è ancora in vari luoghi) una sorta di strumento del terrore inteso come azzeramento e attribuzione di un’identità insopportabile. 

“Basagliano” diverrà allora il pensiero sensato (ormai introvabile), l’agire a etica minima ispirato, la pratica decente delle istituzioni e degli istituti, un’azione dotata di quel minimo di critica alla vacuità scientifica istituita nelle apposite società di cui la Psichiatria Forense è l’apogeo, deistituzionalizzare il pregiudizio, relativizzare ogni giudizio, rispettare quel prendersi tanto sul serio, con ciò forse potendo spezzarne le mura, per un’ansia di democrazia che possa ridurre in qualche modo l’obbligo della malafede come unica difesa dalla follia. 

Ce lo potrà permettere l’avere autonomi progetti, avere un socius in questo, dei complici qua e là, costruire assieme all’altro una frase di cui sapevamo solo qualche parola, qualcuno o qualcosa che non si stanchi della tua difformità. E se fossimo addirittura capaci di costituire l’altro a valore? Forse (psichiatri) avremmo cominciato a fare il nostro mestiere. Sarà sempre tardi. 

2006