Riportiamo di seguito un articolo di Massimo Cozza, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 2, uscito non molto tempo fa su Repubblica. Si tratta di un commento alla recente sentenza della Corte Costituzionale che stabilisce la possibilità di curarsi al di fuori del carcere per i detenuti con sopravvenuto disturbo mentale.
La recente sentenza della Corte Costituzionale 99/2019 ha stabilito la possibilità di curarsi al di fuori del carcere per i detenuti con grave infermità psichica sopravvenuta, anche se la pena supera i 4 anni. La Magistratura verificherà caso per caso la possibilità degli arresti domiciliari nella propria abitazione oppure presso un luogo pubblico di cura, considerando l’assistenza psichiatrica all’interno del carcere e le esigenze di sicurezza. Questa pena alternativa era prima consentita solo ai detenuti con infermità fisiche. Si tratta di una scelta giusta che afferma per la persona con disturbi psichiatrici, anche se detenuta, la stessa dignità e gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini. La possibilità di trattamento sanitario al di fuori del carcere va però condivisa dalla Magistratura con i Dipartimenti di Salute Mentale, al fine di avere la certezza di diagnosi e di percorsi di cura appropriati, e con l’obbiettivo di evitare l’affidamento di persone senza chiari disturbi psichiatrici. Va inoltre riaffermato che gli operatori della salute mentale devono curare e riabilitare, ma non possono e non devono svolgere compiti impropri di custodia e di controllo della pericolosità sociale. La stessa Corte nella sentenza sancisce, in virtù delle riforme legislative, un cambiamento di paradigma culturale e scientifico nel trattamento della salute mentale, che può riassumersi nel passaggio dalla mera custodia alla terapia.
Dopo questo importante passo in avanti la logica conseguenza dovrebbe essere l’equiparazione sia dei diritti che dei doveri per chi soffre di disturbi psichiatrici. È ora di abolire il vizio totale di mente, che oggi esonera dal processo e dalla pena detentiva chi ha commesso un reato se al momento del fatto era incapace di intendere o di volere, ma lo immette in un altro binario con le misure di sicurezza legate alla pericolosità sociale. Un percorso senza evidenze scientifiche, legato ad una concezione del malato di mente inguaribile, geneticamente predeterminato, imprevedibile e pericoloso, che portò alla stesura del vigente codice penale del 1930, ormai anacronistico a 41 anni dalla legge 180.