di Pier Aldo Rovatti

Finalmente il cavallo azzurro con la pancia piena dei nostri desideri è uscito per le strade. Ne avevamo già avuto sentore e ci speravamo. Adesso eccolo lì, non ci sono dubbi, è proprio lui. Con sorpresa lo seguiamo e partecipiamo all’evento festoso. Sì, c’è allegria, un’allegria troppo rimandata. La gente accoglie il cavallo azzurro con palpabile sollievo, si sente coinvolta, come se ciascuno ne avesse fabbricato un pezzetto con le proprie mani. Questa è l’aria che tira in Italia, dopo il successo dei referendum, dopo un lungo digiuno. Ora si faranno i conti e si calcoleranno le conseguenze con una nuvola di discorsi. La politica riprenderà spazio con i suoi infiniti e necessari compromessi. Ma tutti, intanto, abbiamo voglia di vivere il momento della festa, una sensazione intensa di libertà alla quale non eravamo più abituati. L’allegria nasce meno dallo schiaffo dato a Berlusconi (venticinque milioni di italiani hanno detto di no, in buona sostanza, a importanti leggi volute da lui e dal suo governo) che dal sentimento di avere per una volta praticata la libertà in modo diretto, di esserci riusciti e di aver dato a se stessi la prova concreta che si poteva fare. Il simbolo del cavallo azzurro è familiare ai triestini. Ci riporta al 1973, quando effettivamente un grande cavallo di cartapesta venne costruito in un mitico laboratorio messo in piedi da Giuliano Scabia (uomo di poesia e di teatro) in uno dei padiglioni già “liberati” del manicomio di San Giovanni.

Un bel giorno lo strano cavallo fatto dai “matti” uscì da quel padiglione (a fatica, perché era troppo grosso e non passava dalla porta) e fu portato in città. Per chi ha modo di ricordarselo, si trattò di un evento del tutto straordinario, una pratica collettiva di libertà inimmaginabile (per chi non può avere memoria personale, ecco, proprio adesso, la nuova edizione del libro di Scabia, pubblicata da Alphabeta Verlag, che contiene anche uno straordinario video dell’intera esperienza). “Marco Cavallo” è il nome di questo simbolo che vorrei avvicinare ai vissuti collettivi di oggi. Lasciamo stare “i matti” e “i sani” e come davvero si distribuiscano per noi le parti, che ora quasi si identificano poiché siamo stati abbastanza folli per crederci fino in fondo. Credere a cosa? Che la “normalità” civile potesse venire ritrovata, che potessimo cominciare a renderla vera attraverso i nostri atti. Vorrei soprattutto sottolineare quella che sembrerebbe una semplice tonalità emotiva e che a me pare invece il punto centrale di quel che sta accadendo: chiamiamola appunto “allegria” oppure “clima di festa”, sta di fatto che nell’opaca e reattiva seriosità e nella volgarità dilagante si è prodotta una breccia di umore buono, un’onda di piacere di vivere, una voglia di ironia e di umorismo condiviso. Un desiderio di inventare festosamente la propria libertà, proprio come accadeva in quel padiglione di manicomio dove ciascuno “inventava” un pezzetto del cavallo azzurro e ci metteva dentro il proprio desiderio negato. Insomma, non c’è pratica di libertà senza invenzione di libertà, e questa invenzione non tollera che i visi siano truci, anzi esige volti sorridenti. Nel sorriso, che oggi abbiamo infine ritrovato, hanno un peso determinante i giovani e il loro modo di usare i nuovi media. Non dovevano essere morti e sepolti, atterriti dalla loro mancanza di futuro? Ci sarà occasione di discuterne, ma è comunque un fatto che – come si è detto – “la televisione è stata presa alle spalle”. Il sorriso (anche irriverente) di cui sto parlando non ha niente in comune con lo spettacolo stupido e volgare che chiamiamo “sottocultura televisiva”. Le barzellette di Berlusconi (fino all’ultima, quando ha illustrato il “Parnaso” come un bunga bunga a Netanyahu, proprio mentre la gente stava andando a votare per i referendum) sono l’esatta negazione dell’ironia e dell’autoironia, e appaiono decisamente volgari (non solo per il loro contenuto sessuale) di fronte al modo sorridente e ironico di preparare e festeggiare una pratica di libertà. Nella quale non c’è spazio per storielle a uso personale perché vi domina l’allegria di un “popolo” che sta inventandosi una via per uscir fuori, collettivamente, dal buco in cui è stato cacciato, cominciando ad accorgersi che in quel buco ci siamo in buona misura cacciati da soli e che non c’è obbligo di rimanerci.

(da Il Piccolo di venerdì 17 giugno 2011)

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