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Aprire le istituzioni. Sui motivi per cui il partito comunista a Parma non sostenne l’esperienza di cambiamento di Basaglia si è molto scritto in questi anni. Qual è la sua idea?
Il Pci ha sempre considerato che la contraddizione principale fosse tra classe operaia e capitale. Dentro questa contraddizione matti, sottoproletari, esclusi totali non hanno mai trovato più di tanto spazio. Erano lumpenproletariat. Noi invece abbiamo sempre pensato che la contraddizione principale fosse tra istituzioni chiuse e istituzioni aperte. Il che apriva un discorso politicamente diverso sul ciclo dell’esclusione e su quel che bisognava fare per emancipare lo stato delle cose. L’impegno di Basaglia è nato dentro questa cornice e qui ha trovato alleanze: in parte nel mondo cattolico, in parte nel mondo socialista, in parte anche – certamente – nel partito comunista, ma in quella corrente un po’ anomala, un po’ libertaria, un po’ poetica che avrà in Mario Tommasini il personaggio più straordinario della nostra epoca. Dentro questa contraddizione abbiamo continuato a stare.

La dialettica tra istituzioni chiuse e istituzioni aperte è ancora la questione principale del nostro tempo?

Sì, è ancora quella che ci deve orientare rispetto ai percorsi, agli obiettivi, alle pratiche che mirano a restituire dignità e
potere alle persone. Il manicomio è stato il paradigma dell’istituzione chiusa, il segno tangibile di una psichiatria che si fondava sulla restrizione, sulla negazione, sull’impoverimento. Gli ospedali psichiatrici altro non erano che il tentativo di contenere grandi e complessi problemi dentro una scatola piccola, chiusa, semplificatrice. E proprio per questo violenta.
Noi abbiamo immaginato che bisognasse fare esattamente il contrario: validare invece di invalidare, includere invece di
escludere, arricchire invece di deprivare, ricostruire invece di azzerare. Ricostruire che cosa? Ricostruire tessuti di senso e di relazioni; ricostruire casa, lavoro, affettività; ricostruire un rapporto tra etica ed estetica; ricostruire comunità, collettività. E consentire, attraverso un lavoro concreto di cambiamento delle istituzioni, che le persone potessero ricostituirsi come soggetti e come soggetti interagire dentro la società. Questo è un lavoro che abbiamo imparato a fare partendo dal manicomio, perché il manicomio era così caricaturalmente tutto questo in negativo che bastava fare l’esatto
contrario di quello che vi accadeva. Avendo però sempre chiaro che il cambiamento è un processo mai concluso, ma ogni giorno bisogna ricominciare dalla realtà: toccando le corde dell’amministrativo, del politico, dello scientifico, del tecnico, dell’interpersonale, dell’affettivo, del corpo sociale. Mettendo insomma in gioco tutti i livelli delle questioni. Questo lavoro ha funzionato, si è rivelato giusto, talmente giusto da essere ancora oggi terreno di conquista. Perché tuttora esistono un’infinità di pratiche che sono pratiche di negazione, di invalidazione, di sopraffazione, di violenza pura, di esclusione
o di contenimento. Pensiamo a cosa sono certi servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) in giro per l’Italia, o certi
centri di riabilitazione che non hanno mai riabilitato nessuno né potranno mai farlo per come sono configurati.
Non basta dire: abbattiamo i muri. Sono queste le istituzioni oggi da aprire, da reinventare? Sì, ma non solo. Istituzioni chiuse ne incontriamo in ogni dove. Molti luoghi di lavoro oggi sono istituzioni chiuse. Molti servizi sanitari e molte famiglie sono istituzioni chiuse, di una opacità assoluta. Ma tutto il tessuto sociale è intriso di istituzioni.
E anche ognuno di noi è preso in questa dialettica in quanto è dentro un’istituzione o la rappresenta a cagione del ruolo che
riveste, della situazione in cui si colloca. In ogni gesto, in ogni comportamento, in ogni pensiero troviamo la dialettica tra aprire e chiudere. Una dialettica che deve interrogarci tutti i giorni. Tuttavia credo che oggi vi sia una questione
su tutte che riproponga questa contraddizione su scala planetaria e con grande chiarezza: la questione dei migranti. I migranti sono oggi gli esclusi totali e davanti a loro torna la domanda: erigere muri o assumerci responsabilità? I temi drammatici di questi giorni, di queste settimane, di questi mesi ci dicono che il problema è ancora lì: far fronte a questa nuova grande epopea aprendo corridoi o alzando muri? Qui ci giochiamo la nostra cultura, qui ci giochiamo il nostro futuro e il senso del nostro presente. Però non basta dire: abbattiamo i muri. Dobbiamo anche inventare che cosa sostituire
ai muri. Dobbiamo dirci quali relazioni, quali alleanze, quali convivenze, quale contratto sociale vogliamo. Non possiamo
semplicemente dire «no ai muri» e poi accada quello che accada. Credo che la storia della riforma psichiatrica parli, prima ancora che di muri abbattuti, di un’assunzione di responsabilità che da Basaglia in poi è avvenuta rispetto a un mondo: il mondo degli esclusi. Delle persone si sono assunte la responsabilità di altre persone e invece di rinchiuderle hanno provato ad affrontare in altro modo la questione della loro presenza dentro le comunità. Oggi, sul tema dei migranti, il problema a me pare lo stesso: vogliamo ragionare attraverso la costruzione di muri o attraverso istituzioni aperte? Ma queste istituzioni aperte le dobbiamo creare, le dobbiamo inventare e le dobbiamo anche governare. Ci dobbiamo assumere la responsabilità di governare le cose in modo democratico. Senza muri, ma facendo attenzione a non abbandonare.

[Continua]

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