muro abbattuto

Non è vero che la gente non capisce. Oggi viviamo un momento storico in cui alle frontiere tornano i muri. Erigere un muro porta sempre più consenso che abbatterlo?


Stare dalla parte degli esclusi non ha mai aiutato molto dal punto di vista elettorale. Però io penso che se ci si assume delle responsabilità chiare sui problemi – anche su problemi che inquietano e spaventano – la gente capisce. Se il centro di salute mentale è aperto 24 ore al giorno, se le famiglie sanno di non essere sole ad affrontare la sofferenza mentale di un loro figlio, ma di avere al loro fianco servizi e cooperative sociali, bene se tutto questo vive e funziona, la gente capisce.

La gente è in grado di capire la trasformazione, è in grado di capire l’innovazione, è in grado di capire un altro modo di fare democrazia. Purché questo accada davvero. Quella che continua a essere la peculiarità di Trieste è che stiamo continuando a far sì che quest’altro modo sia un po’ vero. E da tutto il mondo continuano a venire per vedere come si fa. E a noi dispiace parecchio, perché vorremmo che il resto del mondo non avesse più bisogno di venire a Trieste.

Tante realtà, dal Brasile alla Grecia, hanno prodotto istanze di liberazione, come ab­biamo cercato di fare noi. In vari posti questo è accaduto, in tanti altri no, in altri un po’ è accaduto e poi si è tornati indie­tro. È una battaglia che bisogna continuare giorno per giorno, a partire dall’Italia, a partire da ognuno dei nostri paesi, perché è una battaglia in parte vinta e per moltis­sima parte ancora tutta da fare. Ed è una battaglia in cui ne va del significato del no­stro lavoro, soprattutto se questo lavoro è quella specie di cosa misteriosa che è la psichiatria: la presunzione di poter curare l’altro, la sua salute mentale, consideran­dolo come persona, come soggetto.

Si diventa matti anche nei giorni di festa. Nel suo libro lei racconta i momenti alti ed entusiasmanti di questa battaglia, ma anche quelli in cui tutto è sembrato potersi disperdere. Quanto è difficile fare una psichiatria dalle porte aperte?

Nel libro si cerca di dire cosa abbiamo fatto: abbiamo cercato di mostrare che era possibile e giusto trasformare i bisogni in diritti. Che era possibile e giusto affrontare le questioni cercando di produrre diritto e diritti, in una situazione che era l’esatto opposto, cioè la negazione del diritto e dei diritti. Il libro va dal 1971 ai giorni nostri. E in tutti questi anni abbiamo detto una cosa sola: si può fare in un altro modo.

Si può fare inventando un albergo ai Caraibi, si può fare inventando una barca a vela che viaggia nel Golfo di Trieste, si può fare inventando la prima cooperativa sociale d’Italia nel 1972, si può fare co­struendo dei centri di salute mentale che siano aperti anche il sabato e la domenica e durante tutte le feste comandate, perché si diventa matti anche quando si fa festa, anzi lo si diventa ancora di più perché, come scriveva Alda Merini del Natale, «chi è solo lo vorrebbe saltare questo giorno».

Non c’è ragione che esistano degli ambu­latori aperti soltanto qualche ora al giorno. Non c’è ragione che a ciò a cui l’ospedale psichiatrico dava una risposta brutale, cioè il diritto di asilo, non si debba cercare di dare risposta oggi, ma di darla in quanto diritto, come diritto a un asilo, ovvero a una protezione temporanea che ti consenta di ricostruire insieme ad altri un percorso dentro lo spazio di libertà e dentro isti­tuzioni totalmente aperte. Con la porta sempre aperta, appunto.

Questo discorso della porta sempre aperta sembra semplice da fare, in realtà abbiamo visto quanto sia faticoso. Tenere la porta aperta è una fatica che non vale solo per i manicomi, per i servizi di salute menta­le o per le istituzioni pubbliche o private che siano. Vale per ognuno di noi, nella vita privata e in quella pubblica, vale sul macro e sul micro, vale nei macrocontesti e nei microcontesti, vale come stile di vita e come stile professionale.

A partire da questo paletto sono nate tante pratiche, tanti tentativi, anche poi falliti o conclusi. La barca a vela dopo due o tre anni è affondata; l’albergo a Santo Domingo ce l’hanno fatto vendere perché sembrava assurdo che i matti andassero ai Caraibi – i matti al massimo possono anda­re a Grado, a Vignano, a Ravenna e questo è già un gran lusso, ma ai Caraibi no. E cosa importa se l’albergo ai Caraibi costava molto meno di una qualunque residenza sanitaria in qualunque regione italiana? Ma va bene così, va bene che le cose abbiano anche un loro tempo, un loro spazio, una loro occasione. L’importante è ricomincia­re ogni giorno, continuare a fare per non subire, e farlo con gli altri immaginando che ciò che si fa possa determinare effetti molto importanti per tanti.

Valorizzare i successi, senza innamorarsene. Oggi come le appare la psichiatria? Tutti questi anni di idee, lotte, invenzioni co­s’hanno sedimentato?

Credo che alcune ipotesi si siano rivelate assolutamente giuste. Che il cambio di pa­radigma della psichiatria abbia dato vita ad altri modi di fare salute mentale, determi­nando grandi evoluzioni. Ma queste grandi evoluzioni sono ancora in divenire: abbia­mo ancora milioni di persone nei manico­mi del mondo. Abbiamo ancora psichiatrie fortemente arretrate anche in Italia. E muo­iono ancora persone legate ai letti nei nostri Spdc. Accade di tutto, tuttora.

Ma una grande trasformazione è anche avvenuta. Una grande frattura si è crea­ta nel mondo della psichiatria attraverso questa esperienza. Si è passati dal mani­comio a residenze che non hanno più le caratteristiche istituzionali di violenza, di stupidità, di deprivazione che caratterizza­vano gli ospedali psichiatrici. Si è passati dallo statuto di persone private per legge dei diritti, della cittadinanza, allo statuto di persone che comunque mantengono i diritti civili e politici e alle quali si cerca di garantire anche i diritti sociali. Persone che sempre più prendono la parola e parlano delle loro esperienze: a Trieste per esempio si tiene periodicamente un appuntamento dal titolo «Impazzire si può», dove prota­gonisti sono coloro che vivono un disturbo psichico. Questo è un approccio che sta crescendo un po’ in tutto il mondo e che dà un segnale di speranza importante.

Il libro su Trieste dà conto di tutto questo, è la cronistoria di un periodo che va dal 1971, quando Basaglia assume la direzione del locale ospedale psichiatrico provincia­le, ai giorni nostri. Un lungo periodo in cui l’istituzione è stata negata, destrutturata, reinventata, perché desse luogo ad altro, ad altre possibilità. L’istituzione inventata mi sembra la cifra di Trieste, ma anche la cifra di quanti vogliono assumersi delle responsabilità oggi, nel quadro delle po­litiche contro l’esclusione sociale. Si tratta di proseguire, è un percorso che da noi è stato avviato, altrove ancora no. Penso al Giappone dove 350.000 persone sono oggi recluse nei manicomi.

Quindi cerchiamo di valorizzare i successi relativi perché ci mostrano che fare salute mentale in un altro modo si può, ma non innamoriamocene perché rischieremmo di dimenticare quanta strada c’è ancora da fare. È la strada che dalla psichiatria istituzionale conduce alla salute mentale, perché è ormai chiaro che politiche di sa­lute mentale e politiche di tipo psichiatrico non sono la stessa cosa.

Noi parliamo alternativamente di salute mentale e di psichiatria come se fossero ter­mini omogenei, ma non è così. L’orizzonte verso cui tendere sono politiche di salute mentale, pratiche di salute mentale, strate­gie di costruzione di salute mentale, allonta­nandoci sempre di più da psichiatrie obso­lete, riduttive, oggettivanti e medicalizzanti.

[Continua]

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