La vigilia di Ferragosto ricevo dall’amico Peppe un regalo tanto gradito quanto inaspettato: l’invito a leggere una mirabile narrazione risalente al 2016 pubblicata sul Forum Salute Mentale a firma Francesca De Carolis. Vi invito a cercarla sul Forum e a leggerla: La Rems. E il pranzo della domenica. E’ la toccante esperienza vissuta  da Mattia e dalla sua famiglia, un racconto che mette a fuoco il controverso tema delle R.E.M.S., strutture riabilitative nate dalla chiusura degli  OPG (ospedali psichiatrici giudiziari) e di cui noi qui a Trieste (Aurisina) vantiamo un esempio  di eccellenza. 

La storia di Mattia e della sua famiglia mi è stata d’ispirazione per parlare di speranza. Quella che in particolare noi mamme dovremmo mantenere sempre viva nell’affrontare  il disagio dei nostri cari.  

Dopo quasi dieci anni dall’esordio della malattia di mio figlio Zeno non ho smesso di sperare e lotto ogni santo giorno pur riconoscendo i limiti di una possibile guarigione, accompagnati spesso da un senso di impotenza. 

Quando si è manifestato il disagio mentale di Zeno tutta la famiglia ne ha risentito. E’ una condizione impossibile da ignorare, da non avvertire, è impossibile far finta di niente. 

E così è stato. L’equilibrio emotivo e gli stati d’animo di tutti erano condizionati dal suo malessere.

Ho cercato da subito di fare qualcosa, ho cercato disperatamente una soluzione ma non riuscendo mi sono sentita inutile, travolta da un senso di fallimento. Ma scoprirò  più  tardi che l’aiuto di una mamma non è mai invano.

“Ciò che dobbiamo combattere è  il pessimismo della ragione ed avere l’ottimismo di trovare una soluzione, di trovare qualcosa di diverso, una speranza … la speranza deve stare in noi, come espressione delle nostre contraddizioni”. (Franco Basaglia). 

Sono stata pervasa da un senso di colpa che era diventato ormai la mia ombra. Si insinuava e si palesava in continuazione: avrò fatto abbastanza? Ma come ho fatto a  non capire prima? E’ tutta colpa mia. La malattia mentale fa danni paragonabili a quelli di una bomba ed è impossibile non farsi travolgere dai sensi di colpa. Imparerò  più tardi che attraverso un’analisi “razionale” e una buona dose di ascolto dedicato a persone esperte anche i sensi di colpa possono essere superati.

Ho temuto il giudizio degli altri e ho cercato di nascondere il problema. Mi sono  vergognata di una malattia che genera ancora oggi timore nell’opinione pubblica. Mi sono chiusa in me stessa precludendo il sostegno da parte di amici e conoscenti: ho vissuto l’auto stigma che tende a rifiutare ogni relazione con l’esterno, ritardando se non annullando ogni possibile reinserimento sociale. Poi ho trovato la forza di aprirmi alla conoscenza come strumento di liberazione: conoscere i sintomi della malattia, le sue possibili cause e i diversi approcci terapeutici è il primo passo per rendere partecipi anche gli altri, chi ti sta vicino e iniziare un percorso di consapevolezza. E’ così che ho iniziato a muovermi in un contesto “attento al più fragile e accogliente delle diversità”.

All’inizio della malattia ho sperimentato la solitudine, ho avuto difficoltà di parlare delle mie emozioni per paura di essere giudicata. Ho avuto carichi oggettivi: costi economici, ore di lavoro perse, spese in procedimenti civili e penali. E carichi soggettivi: la sofferenza esistenziale per un figlio per il quale ti immaginavi un futuro diverso. L’ansia, la frustrazione, l’impossibilità di programmare liberamente il mio  futuro, il vissuto di colpa, la vergogna. Scoprirò più tardi l’associazione dei familiari fatta di tante mamme (e non solo) come me, che mi hanno offerto una semplice ma preziosa compagnia, una condivisione della propria sofferenza. L’associazione  ha sicuramente contribuito ad alleggerire gran parte di quei carichi.

“La speranza è il respiro profondo della vita e non è cosa che si insegna, si aiuta l’altro ad aprirsi a questo sentimento quando lo si incarna, quando si testimonia concretamente il coraggio della speranza”. (Luigina Mortari)

Gestire un figlio con un disturbo mentale è pesante e faticoso, alla lunga sfinisce se non sei riuscita a creare una rete più allargata di supporto. Non potevo essere sopraffatta dalla stanchezza fisica e psicologica, per il suo bene, il mio e quello dei fratelli. 

Una rete più allargata di supporto era necessaria per farmi sostenere e consigliare e che prendesse in carico la salute di mio figlio.  La risposta è arrivata dal dipartimento e dal centro di salute mentale di riferimento. 

Ho avuto paura e timore di non farcela in particolari situazioni di aggressività scatenate  dalla malattia che Zeno non riusciva  a dominare. Ho avuto paura di lasciarlo solo, quando i doveri mi costringevano altrove. Ho avuto paura che la sua depressione lo potesse condurre a farsi del male o che potesse provocare danni a persone o cose. Ho chiesto  aiuto al centro di salute mentale e alle forze dell’ordine e mi veniva dato.

“Memoria e speranza … sono strettamente intrecciate l’una all’altra e questo ci dice come passato e futuro si rispecchino l’uno nell’altro: senza fine e allora è necessario che ciascuno di noi custodisca nel cuore la speranza fragile come cristallo e dura come diamante.” (Eugenio Borgna).

Ho provato e provo ancora oggi in alcuni momenti tanta tristezza nell’immedesimarmi nella condizione di mio figlio. Quando mi capita reagisco per non farmi sopraffare e vivo avanti la mia vita senza rinunciare a sostenere mio figlio e vivendo e difendendo i miei spazi perché il suo benessere va perseguito anche attraverso il mio.

La vera sfida di noi mamme è quella di sopravvivere alla malattia mentale del proprio figlio, non lasciarsi abbattere, non tralasciare i propri progetti di vita perché solo così si potranno trovare le forze per poter essere dei forti e sicuri punti di riferimento. 

… e soprattutto non perdere mai la speranza, proprio come la mamma di Mattia!