Rimosso in morte come in vita, a Venezia e a Trieste nessuna via porta il suo nome. Eppure è stato il protagonista di un evento fino ad allora inedito al mondo: la chiusura dei manicomi. Ha insegnato che la malattia psichica è anche malattia sociale. E che responsabilità e dignità sono terapeutiche.

  1. Quando Franco Basaglia muore il 29 agosto 1980, a soli 56 anni, Il Gazzettino di Venezia relega la notizia in cronaca, mentre Il Piccolo di Trieste la tratta con distacco. Eppure, Basaglia è veneziano di nascita ed è stato primario del manicomio triestino. È un oblio che persiste: ancora oggi, Venezia e Trieste non hanno una piazza o una via intestata a suo nome; ce n’è una, invece, a Rio de Janeiro, città che ospitò le sue famose conferenze brasiliane.

Nemo profeta in patria. È il destino degli irregolari che non appartengono ad alcuna chiesa ufficiale. Non è un caso, semmai la manifestazione di quell’ignoranza razionale che ci spinge a decidere di non sapere: solo così, infatti, possiamo rinsaldare i nostri pregiudizi evitando le fatiche del dubbio e del confronto. Ignorare biografie come quella di Franco Basaglia non è, allora, solo un problema culturale. È soprattutto un problema politico, perché il vuoto (di memoria) chiede di essere riempito con un pieno, travasato da un presente che non offre storie di eguale spessore.

  1. Già in vita, Franco Basaglia fu oggetto di rimozione da parte del mondo accademico, a suo modo un’istituzione totale: “Io sono entrato nell’università tre volte e per tre volte sono stato cacciato”. Prima dall’Ateneo di Padova, per andare a dirigere il manicomio di Gorizia. Poi dall’Ateneo di Parma, dove insegna igiene mentale per otto anni “durante i quali sono stato isolato come un appestato”. Infine quando, da neo-ordinario, declina la cattedra di neuropsichiatria geriatrica che gli fu proposta per emarginarlo: “ho preferito rifiutare e tornare in manicomio”.

Il suo è stato il destino dell’uomo di confine. Lavora a Gorizia, città a metà tra Italia e Jugoslavia. Lavora nei manicomi, i cui muri separano – per convenzione – follia e normalità. Da quando non c’è più, Basaglia paga quel suo destino con una sorta di confino, politico e culturale. Eppure, con Franca Ongaro Basaglia, è stato il protagonista di un evento fino ad allora inedito al mondo: la chiusura dei manicomi, a dimostrazione che l’impossibile è possibile.

  1. C’è un proverbio calabrese che sintetizza al meglio il lavoro di Franco Basaglia: “Chi non ha, non è”. Riassume efficacemente i due capisaldi del suo agire: la malattia psichica come malattia (anche) sociale; il valore terapeutico della responsabilità individuale, attraverso la restituzione dei diritti negati al malato. Vengono in mente le foto dell’occupazione del manicomio di Colorno, coperto da striscioni studenteschi che recitano: “Il figlio del ricco è esaurito, il figlio del povero è matto”, oppure “Se l’ospedale psichiatrico serve a curare le malattie mentali, i malati ricchi dove sono?”. È la miseria a produrre orrori.

Basaglia ne è convinto. Non per ideologia. Non perché neghi le cause biologiche della malattia mentale. Semplicemente perché, interessato più al malato che alla malattia, lo considera nella sua unità di soma, psiche, civitas. È lui stesso a spiegarlo, con un esempio lampante: “Un conto è se io chiamo pellagra la malattia di chi vive solo di polenta, un conto se la chiamo miseria […]. Che cos’è, infatti, la pellagra? Dopo i primi sintomi (eritema, diarrea, tremori), intervengono disturbi psichici che iniziano con ipocondria, depressione e portano a gravi stati confusionali con allucinazioni visive, agitazione e delirio: la vera demenza pellagrosa. Malattia mentale, infine, da fame antica, però”.

Le cause (anche) sociali della malattia mentale obbligano a spostare il baricentro della cura: centrale diventa una politica di prevenzione, capace di intervenire sugli ambienti di vita e di lavoro delle persone. Nel linguaggio giuridico si chiama libertà dal bisogno, attraverso l’affermazione dei diritti sociali riconosciuti in Costituzione. Infatti, chi non ha (diritti) non è, perché a chi tutto ha perso capita più facilmente di perdere, alla fine, anche sé stesso.

Per queste ragioni, secondo Basaglia, curare il malato mentale significa “restituirgli le sue integre possibilità esistenziali”. Non calmarlo, sedarlo, addomesticarlo, ma riconoscergli dignità e responsabilità, diritti e doveri. Cosa impossibile in manicomio, perché si danno persone dotate di senso solo in un contesto dotato di senso. Da qui la sua lotta: prima per trasformare l’ospedale psichiatrico in una comunità terapeutica (a Gorizia); poi per la sua definitiva chiusura (a Trieste).

  1. L’aspetto più interessante, nel rileggere l’esperienza basagliana, è l’originalità della sua pratica psichiatrica. Alla domanda (leninista) “Che fare?”, Basaglia risponde: “Fare!”.

Secondo l’insegnamento di Sartre, sa bene che “le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte”. Preferisce per questo misurarsi con la realtà delle cose, convinto che la praxis sia sempre una teoria ancora non detta. Questo comandamento traspare, ad esempio, nel lavoro all’interno del manicomio di Trieste (cfr. Aa.Vv., La libertà è terapeutica?, 1983).

Reparti aperti. Eliminazione dei camici e della contenzione. Lavoro dei pazienti organizzato in cooperative e regolarmente retribuito. Assemblee di malati e di medici, e tra malati e medici. Trasformazione dell’area dell’ospedale psichiatrico in spazio aperto al pubblico per mostre, concerti, eventi teatrali, convegni anche internazionali. Sarà, questa, una storia comune a molte altre città. Nel 1969, infatti, la sua equipe di Gorizia dà vita ad una feconda diaspora che esporterà la praxis basagliana altrove: Pirella si insedia ad Arezzo, Jervis e Letizia Comba a Reggio Emilia, Schittar a Pordenone, Casagrande a Venezia, Slavich a Ferrara. Inquadrate in campo lungo (cfr. John Foot, La “Repubblica dei matti”, 2014), tutte queste esperienze di de-istituzionalizzazione manicomiale seguono un metodo di lavoro comune, efficace, preciso, lontano da quell’antipsichiatria scellerata di cui Indro Montanelli accusa Basaglia (cfr. Pier Maria Furlan, Sbatti il matto in prima pagina, 2016).

  1. Accanto al lavoro clinico, l’esperienza basagliana scorre lungo il binario parallelo del lavoro politico-istituzionale. Basaglia non è un extraparlamentare antagonista alla Repubblica dei partiti, con i quali semmai stringe alleanze. Nella loro diaspora, i basagliani cercano e trovano l’appoggio di assessori provinciali “illuminati” dallo choc che segue la visita al manicomio cittadino, di cui sono amministrativamente responsabili. Meritano un ricordo riconoscente: ad Arezzo, Bruno Benigni e Italo Galastri; a Colorno, Mario Tommasini; a Trieste, Michele Zanetti; a Ferrara, Carmen Capatti; a Perugia, Ilvano Rasimelli. Sono comunisti, socialisti, democristiani, espressione di una nuova classe dirigente che si affaccia alla politica nel dopoguerra, con la Costituzione repubblicana alle spalle.

La stessa legge n. 180 sarà approvata, nel 1978, con un voto parlamentare quasi unanime (con l’eccezione del Partito Radicale che la giudica un escamotage per evitare il referendum abrogativo della legge manicomiale del 1904, già convocato). Con grande intelligenza, dunque, Basaglia ha sempre usato il potere politico come un mezzo, forte di una convinzione: “È quello che ho già detto mille volte. Noi nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere. E nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo”. Ciò ne fa un intellettuale sui generis, capace di unire gradualismo (nel metodo) e radicalismo (negli obiettivi): un riformista massimalista, un concreto utopista, un legalitario rivoluzionario. Basaglia, insomma, incarna un ossimoro.

  1. Il frutto più maturo dell’esperienza basagliana sarà la chiusura dei manicomi. In origine, era la legge Giolitti (n. 36 del 1904) a disciplinare la custodia e la cura dei “mentecatti”. Questo, infatti, era il nomen iuris dell’internato: “mente captus” cioè “preso alla mente”, e per questo “pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo”. Incatenato due volte, alla malattia mentale e al manicomio dov’è rinchiuso e oggettivato secondo categorie corrispondenti ai reparti di cura e custodia coatte: tranquilli, semiagitati, agitati, sudici, paralitici, epilettici, infettivi, suicidi.

Sono discariche sociali, i manicomi, per l’appartenenza di classe dei malati e per le condizioni in cui sono tenuti in cattività. Quando nel 1961 varca l’uscio di quello di Gorizia, Basaglia vive il suo personalissimo déjà-vu, percependo il nauseante puzzo di morte che aveva già conosciuto nel carcere in cui, da giovane antifascista, era stato rinchiuso: “Quando vi sono entrato per la prima volta ho avuto quella stessa sensazione. Non c’era l’odore di merda, ma c’era come un odore simbolico di merda. Ho avuto la certezza che quella era un’istituzione completamente assurda, che serviva solo allo psichiatra che ci lavorava per avere lo stipendio a fine mese”.

Il primo intervento di riforma risale alla legge del ministro socialista Mariotti (n. 431 del 1968). Cambia il nome in ospedale psichiatrico. Cancella gli internati dal casellario giudiziario. Prevede i centri d’igiene mentale territoriale. Introduce, accanto all’internato coatto, la figura dell’internato volontario che può dimettersi sotto la propria responsabilità in qualsiasi momento. È una prima crepa che Basaglia cercherà di allargare, propiziando il crollo di un’istituzione sclerotizzata: all’epoca, i “matti” internati si contano in 100.000, sottoposti ancora alle pratiche dell’elettrochoc e della contenzione, nonostante i progressi nella farmacopea.

È in questo quadro ordinamentale che interviene il dispositivo abolizionista della legge n. 180 del 1978, assorbita pochi mesi dopo nella legge-quadro sul Servizio Sanitario Nazionale. Giuridicamente, un ricovero contro la volontà dell’individuo va considerato eccezionale, residuale, sempre reversibile, di durata breve e predeterminata dalla legge, assistito da garanzie procedurali tali da scoraggiarne l’abuso. Per la prima volta, si scinde la tutela della salute mentale dalla difesa dell’ordine pubblico perché l’infermo di mente, in quanto tale, non è più presunto pericoloso a sé e agli altri (cfr. Daniele Piccione, Il pensiero lungo. Franco Basaglia e la Costituzione, 2013).

Le raffiche di critiche mosse alla c.d. legge Basaglia partono fin dalla sua entrata in vigore. Provengono da parenti dei malati dismessi, primari, politici di destra (e di sinistra, come Antonello Trombadori), psichiatri (come Giovanni Jervis, già basagliano della prima ora, o Mario Tobino, divenuto scrittore di fama). Critiche che sbagliano bersaglio, mirando a un’opzione legislativa costituzionalmente orientata, e non alla sua lenta, faticosa, osteggiata attuazione. Critiche che ritornano insidiose, trovando sponde solide nell’attuale governo: oggi, “numeri alla mano, quell’assalto potrebbe concretizzarsi” (cfr., in Domani, 6 maggio 2023, la conversazione triestina tra Gianni Cuperlo e lo psichiatra basagliano Peppe Dell’Acqua).

  1. Lo racconta molto bene la biografia scritta da Oreste Pivetta (Franco Basaglia, il dottore dei matti, 2012): l’esperienza basagliana attraversa il ‘68 di cui è, a un tempo, causa ed effetto. Gorizia prima, Trieste poi, dimostravano la praticabilità di un cambio di paradigma che, dal manicomio, poteva estendersi alle altre istituzioni totali ancora esistenti: famiglia, scuola, università, ospedale, caserma, carcere. L’antiautoritarismo delle pagine di Goffman, Foucault, Cooper si traduceva in un agìto possibile in cui teoria e prassi avanzavano affiancate.

È lo Zeitgeist, lo spirito del tempo che Franco Basaglia incarna al meglio. Un volume collettivo, anomalo e di difficile lettura qual è l’Istituzione negata (1968), racconto dell’esperienza goriziana nel suo farsi, vende come il pane e diventa un bestseller. In quegli anni sorprendenti, i libri si scrivevano (e si leggevano) per rovesciare il mondo, non come oggi sul mondo alla rovescia. Anche in ciò si misura tutta la difficoltà nel superare il nostro deludente e regressivo presente.

Andrea Pugiotto è Ordinario di Diritto Costituzionale, Università di Ferrara

 da L’Unità del 29/8/23

La foto è di Berengo Gardin