reb 1di Emanuela Nava

Caro Peppe, desidero farti sapere quello che ho visto ieri. O meglio ancora segnalarti, come però temo tu già sappia, che anche nella civilissima Milano le cinghie di contenzione non sono state abolite. E che neppure ci si illuda che vengano usate in via eccezionale, visto che sono già presenti in tutti i letti.  All’Ospedale San Paolo di Milano, dove sono stata ieri pomeriggio, me le hanno mostrate non solo l’amica che sono andata a trovare, ma anche le altre compagne di camera. Tutti i letti avevano le cinghie, appunto. E tutte loro erano state legate. Così la mia amica, dopo avermi raccontato quello che le era successo, ha voluto farsi fotografare, perché tu vedessi, come, all’entrata al pronto soccorso, l’avevano legata. Ora penserai magari che si trattasse di un TSO (ma anche col Tso la contenzione non è lecita) e invece no, la mia amica era andata al pronto soccorso volontariamente, anche se poi l’avevano legata e lasciata così da sola con qualcosa che le premeva anche sul petto, forse un’altra cinghia, in un corridoio poco illuminato. Ora non cercherò di parlarti del dolore psichico, delle crisi psicotiche, delle allucinazioni, del baratro in cui precipita l’anima, quando si sta così male. In tutto il pomeriggio trascorso in ospedale ho visto ridere, piangere, scherzare, arrabbiarsi. La mia amica che è una eccezionale logopedista e che dice di essere riuscita a non impazzire mentre era legata, respirando come sa fare e sa insegnare, era l’unica a consolare le compagne che andavano e venivano dalla stanza. Una in particolare che trascinava le sue scarpe senza stringhe e che continuava a piangere e a lavarsi i capelli, forse per lavare via anche i pensieri. Una donna giovane e smarrita che non riusciva a stare ferma e che all’improvviso ho abbracciato anch’io perché si calmasse. E tre ragazzini, chiusi nella stanza del fumo, il più piccolo dei quali aveva 14 anni. Sì, quattordici, hai letto bene, a contatto con adulti disperati.Attorno a tutti noi, malati e sani, dove il confine era piuttosto annebbiato, c’era un ospedale vecchio con le porte chiuse e i bagni con un vetro da cui essere controllati. C’erano infermiere gentili, ma c’era anche chi, tra loro, annusava il caffè della macchinetta portato in reparto per controllare che fosse decaffeinato: dopo le sei non si poteva bere il caffè vero.Peppe, ora concedimi un sorriso. Anch’io, se bevo il caffè dopo le sei del pomeriggio, non dormo. Ma secondo te, un caffè contro tutti gli psicofarmaci che prevede il protocollo, cosa può fare?Temo che il rischio di impazzire davvero e per sempre in ospedale sia molto molto alto.

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