di Peppe Dell’Acqua

È tempo che pensiamo a una scuola. Tutte le volte che cominciamo a riflettere con più tempo e con più pazienza, affollano il campo una quantità pressoché infinita di ordini di discorso. Siamo tutti d’accordo sulla necessità di arginare la smemoratezza dilagante (l’ultimo numero dell’Espresso è un ennesimo pugno allo stomaco), ma le esperienze degli ultimi sessant’anni fanno fatica a stare in continuità con le pratiche che accadono e ancor meno con le strategie formative ad ogni livello.

Politiche e pratiche riduttive sostenute da saperi vecchi (e ideologici) si riproducono come se mai fosse accaduto che i “malati di mente” sono ora cittadini. Quanti vivono l’esperienza del disturbo mentale hanno avuto accesso ai diritti costituzionali, a trattamenti dignitosi, alla loro incomprimibile singolarità. Restano “malati di mente” per le psichiatrie, le psicologie, le accademie.
Molti di noi hanno avuto la fortuna di essere non tanto testimoni quanto protagonisti, quasi inconsapevoli, di un cambiamento che ancora oggi ci stupisce tutte le volte che con più attenzione recuperiamo documenti, memorie, atti politici e amministrativi. E ancora di più quando attraversiamo luoghi ed esperienze dove la cura, il progetto di vita, la vicinanza, la porta aperta sono il “banale quotidiano”.

Immaginare una scuola per la salute mentale, come già è accaduto in precedenti discussioni, per prima cosa ci interroga su come intendere salute mentale, come superare la inevitabile confusione tra questi due ambiti: psichiatria/salute mentale, questo per me è il tema. Dico psichiatria volendo intendere tutto quanto ci accade di vedere e testimoniare dell’ultimo scorcio del secolo fino ai giorni nostri. Tanto per intenderci: “Torneranno i manicomi e saranno più chiusi di prima”. La profezia di Basaglia pare si vada avverando.

Qui chiusura rimanda alla totale mancanza di comunicazione, di alleanze, di condivisione tra quanti (e non sono pochi) condividono la necessità di un urgente cambiamento. Parlare di psichiatria nella scuola che ho (abbiamo) in mente, all’interno di un più vasto e importante movimento trasformativo ha a che vedere con la condizione delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale, delle cure stupide e inutili cui devono soggiacere, della negazione di ogni diritto che se pure faticosamente guadagnato, viene – nell’indifferenza generale – distorto e soffocato.

Riprendo qui quanto mi dice Eugenio Borgna nel corso di nostre amichevoli chiacchierate. Immagino una scuola che renda viva la passione e la condivisione ideale incarnata in un tempo in cui il grande sogno di Basaglia non troppo spesso è mantenuto vivo. Potrebbe essere davvero splendido far riemergere in una luce e in una dimensione nuova quelle che sono le diserzioni di una psichiatria che guarda da distanze glaciali e con indifferenza etica, in particolare, quelle che chiamiamo porte chiuse, contenzioni per non scegliere altre definizioni strazianti e intollerabili. “L’agonia della psichiatria”, di recente edito da Feltrinelli (e che suggerisco di leggere) è un grido di dolore e un richiamo insistente alla inderogabilità di una “nuova rivoluzione, pena la fine, la cancellazione di mezzo secolo di conquiste per le persone che vivono l’avventura del male mentale.

Pur se sono state attivate esperienze, competenze e risorse, che sono il segno del lento cammino del cambiamento, dobbiamo continuare a interrogarci: che cosa si fa per permettere alle persone di vivere le possibilità di cura, di ripresa, di guarigione che ora sono alla loro portata? Si fa ancora poco. Le persone stanno rischiando di essere rinchiuse dentro mura ancora più spesse di quelle del manicomio. Sono le mura costruite dalla forza del modello medico/biologico e dal ritorno prepotente di una psichiatria, quella che si insegna in tutte le università, che vede solo malattia, diagnosi, farmaco, e che fonda la sua credibilità sulla promessa della sicurezza e dell’ordine, sulla fondata certezza del farmaco, su presupposti disciplinari quanto mai incerti e controversi. Mi riferisco ai Servizi psichiatrici di diagnosi e cura ospedalieri blindati che niente affatto comunicanti con la fragile rete dei servizi territoriali, di cui dovrebbero essere parte integrante, quasi ovunque sono diventati “reparti di psichiatria”. I nomi sono conseguenza delle cose!

E ancora alle affollate, costose e immobili strutture residenziali, alle comunità che si dicono terapeutiche e che si situano fuori dal tempo, dallo spazio e dal mondo delle relazioni, ai Centri di salute mentale vuoti e ridotti a miseri ambulatori, alle orrende sezioni psichiatriche in carcere, alle Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza che sempre più vanno somigliando ai luoghi tetri degli Opg che avrebbero dovuto per sempre cancellare. Domina la psichiatria con la falsa promessa delle strabilianti immagini delle neuroscienze, alleate alle psicologie più svariate e spesso gratuite, con la rinnovata chimera del farmaco. La persistenza del modello medico che vede da una parte la “crisi” e dall’altra la “cronicità”, ha condizionato la crescita dei servizi di salute mentale, delle comunità terapeutiche, delle cooperative sociali. La crisi si colloca in ospedale, nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura o, come in alcune regioni, in cliniche private. La cronicità sedimenta nelle strutture residenziali, in istituti pubblici e privati, in centri diurni infantilizzanti, in pratiche assistenziali di fragili cooperative sociali. Tra crisi e cronicità si crea un vuoto, un abisso. Come se la vita delle persone non potesse esistere al di fuori di queste definizioni. I Centri di salute mentale, come in Friuli Venezia Giulia, pensati come luoghi privilegiati della presa in carico territoriale della crisi e a sostegno di una “buona vita” delle persone anche con l’esperienza di disturbi mentali severi, restano invece fragili e vuoti, le comunità residenziali diventano i terminali del fallimento terapeutico.

Nell’evidente “povertà dei mezzi” e nella frammentazione dei servizi, il ricorso alla contenzione accade a copertura dell’esiguità del numero degli operatori e delle cattive pratiche ma non per questo può essere giustificato. La mancanza di risorse nulla toglie al danno sul piano fisico e psicologico per chi la subisce col doloroso senso di umiliazione e di paura, di rancore, di cupezza, di rabbia. E per chi è costretto eseguirla con la morte nel cuore.

È del tutto evidente che oggi niente può essere più come prima. Il tempo non può essere passato invano, servizi e politiche per la salute mentale sono presenti bene o male, spesso malissimo, in ogni regione. La “malattia mentale” può essere narrata in tutt’altro modo: storie di persone, sempre più numerose, nonostante la severità della loro malattia riescono a rimontare e mai hanno subito restrizioni e mortificazioni.

Urgente è ritrovare la capacità di dissentire, di disubbidire, di cogliere davvero il senso di quanto di atroce accade e scivola via nell’indifferenza generale e nella presupponenza delle psichiatrie e delle politiche regionali. Più di mezzo milione di persone sono soggette all’invisibilità, alla negazione della loro stessa esistenza e costrette a rinunciare alla loro storia. Per chiudere una frase come sempre illuminante di Silva Bon, autrice con Isabell Marin di “Guarire si può” per la Collana 180 : “Abbiamo solo la nostra storia. Ed essa non ci appartiene”.