dal sito di Giacomo Doni

Tutto cominciò nel 2007.
Era una fresca e soleggiata giornata di Marzo quando varcai per la prima volta l’ingresso del manicomio di Imola: l’Osservanza.
Una schiera di padiglioni identici, una geometria meticolosa di architettura manicomiale, come se la normalizzazione del comportamento passasse attraverso gli spazi dove i pazienti vivevano.

Padiglioni identici, strade identiche. Cielo cemento terra. Cielo cemento terra.
In manicomio si perdeva l’identità e respirando quell’atmosfera si percepiva esattamente tutto questo.

Ricordo quegli ambienti grandi, identici, soli, silenziosi, proprio come quel mondo spaventato e minacciato da chi viveva oltre le mura di questi ospedali. Fredde e rigide: architetture in grado di rispecchiare lo stigma.

Ricordo che mi fecero conoscere un fotografo interessato alla salute mentale e alla storia di questo imponente manicomio.
Ricordo la chiacchiere e ricordo il documentario che mi fece vedere prima del mio ritorno a casa: Reparto 14, la storia del medico che liberò i pazienti del manicomio di Imola, Giorgio Antonucci.

“Lui cominciò dal reparto peggiore di tutto il manicomio…” mi disse.

E io pensavo a quale potesse essere questo reparto. Immaginavo volti maschili rabbiosi con barbe incolte che gridavano. Immaginavo figure adulte che infermieri stentavano a contenere.
Volti di uomini brillanti di sudore segnati dalle rughe e dalla reclusione.

Niente di più sbagliato. Il reparto peggiore del manicomio non riguardava gli uomini.
Il reparto peggiore era Donne Agitate.

“Antonucci  pensò di partire da quelloperché era il più difficile. Se fosse riuscito a liberarlo, gli altri sarebbero venuti di conseguenza” mi disse il fotografo al termine del documentario.

E inizio a immaginare, ogni immagine che creo mi spaventa.
Immagino donne che non possono essere madri, ragazze che non possono essere mogli, femmine che non possono essere libere. E mi immagino la rabbia nelle loro grida.
Vene gonfie sul collo per espellere suoni di dissenso, di delusione, di rabbia.
Occhi sgranati, pupille dilatate e capelli sul volto. Estetica del disagio. Composizioni anatomiche della rabbia.
Una scena fastidiosa anche per la semplice immaginazione.

Donne. Semplici donne che non sono mai state sotto i riflettori della vita, vittime di sessismo, protagoniste di violenze di genere, persone invisibili e silenziose anche per la nostra immaginazione, che non riesce a trovarle uno spazio neppure “nel reparto peggiore del manicomio”.

Donne che hanno retto sulle loro spalle un peso troppo forte.

Voglio dedicare questo post a tutte le figure femminili che hanno vissuto in questi spazi e che hanno fatto qualcosa di grandioso, di rivoluzionario e indelebile nel tempo. Perché i pesi più complessi della Vita vengono sempre affidati alle persone che li possono sopportare. E le donne sono fra le figure più grandi e coraggiose in grado di reggere questi pesi.

Le storie dei vincitori si scrivono con le lacrime degli sconfitti e senza di loro, non ci sarebbe nessun vincitore. Senza le storie delle donne, le rivoluzioni silenziose del manicomio non sarebbero mai esistite.

Questo sarà un post liquido, che si aggiornerà periodicamente con solo storie al femminile.
Un mio piccolo omaggio a queste creature meravigliose.