In uscita nelle sale dal 18 gennaio 2024

Kripton indaga la vita sospesa di sei ragazzi, tra i venti e i trent’anni, volontariamente ricoverati in due comunità psichiatriche della periferia romana, che combattono con disturbi della personalità e stati di alterazione. Attraverso il racconto della quotidianità dei nostri protagonisti, delle relazioni che intrecciano tra di loro e con il mondo “adulto” composto da psichiatri, professionisti e dalle stesse famiglie, il film ci porta a esplorare in profondità la soggettività umana. La condizione estrema del disturbo mentale diventa la chiave per avvicinarsi all’abisso misterioso della nostra mente e, allo stesso tempo, possibile metafora del nostro tempo. 

note di regia

Kripton, che in greco significa nascosto, è il nome di un elemento chimico considerato storicamente imprendibile e sfuggito ad ogni tentativo di identificazione fino alle soglie del 900.

Ma Kripton (anzi Krypton) è anche un pianeta immaginario, luogo di provenienza di Clark Kent alias Superman.

Per noi Kripton è soprattutto il luogo di nascita di Marco Antonio, uno dei protagonisti del nostro film, almeno così ci racconta lui,  specificando che il pianeta non è esploso come tutti dicono, ma sta ancora lì e “non è remotissimo” anche se in effetti “alquanto remoto è”.

Il mio film nasce da progressivi avvicinamenti, all’interno di due strutture psichiatriche della periferia di Roma, a ragazze e ragazzi, affetti da malattie psichiche. È un film di ricerca e di condivisione, fatto con i pazienti che hanno scelto di raccontarsi. Insieme a loro hanno partecipato i medici e i familiari il cui contributo è stato fondamentale per la completezza del racconto.

Quando ho iniziato a girare, del progetto non esisteva scrittura, solo il desiderio di andare avanti. Non conoscevo a priori la forma da dare al film, né il suo incedere. Non si poteva ipotizzare un prima e un poi, una preparazione e una scrittura, la materia era troppo sfuggente, perché potesse essere ordinata con i metodi di lavoro del cinema. Dovevamo iniziare a girare, trovare i personaggi protagonisti, la struttura del racconto, la sua lingua strada facendo. 

La spina dorsale del film infatti è costituita da stilemi semplici, di osservazione, colloqui con forma di intervista, riprese di riunioni tra medico e paziente, tra pazienti stessi con i familiari, improvvise confessioni. Non è stato semplice arrivare però alla naturalezza necessaria a stare davvero con loro e a far “scomparire” la macchina da presa. 

Questo modo di filmare, l’unico giusto, l’unico possibile, ci suggeriva indirettamente la forma del film, che imponeva alla piccolissima troupe solo illuminazione naturale, l’impossibilità dell’uso del cavalletto e di quasi qualsiasi accorgimento tecnico che potesse intralciare o inquinare il rapporto con i protagonisti.

Tra tutti, il mio desiderio principale, era trovare la voce, la lingua, per rappresentare, con il cinema, modalità estreme di stare al mondo. Esperienze, che sicuramente e specialmente appartengono ai malati, ma con cui il mondo cosiddetto normale condivide, spesso senza ammetterlo, temi, paure e domande diventate oggi sconvenienti, vergognose o proibite. 

Il nostro presente, ossessivamente stimolato da un’euforia performativa che gira spesso a vuoto, tenta di estromettere dalla comunicazione e spesso anche dalla “pensabilità” le domande fondamentali, quelle universali dell’essere umano. Sembra paradossale ma sono proprio le domande che si pongono una gran parte dei pazienti, rimanendoci loro però, a differenza dei più, drammaticamente incagliati, perché troppo fragili per sostenerne il peso.

Sembra spesso che davanti alle loro domande si trovino di fronte lo specchio riflesso del nostro indecifrabile presente. 

La follia mi sembra la più efficace e la più contemporanea tra le possibili metafore che illuminano il nostro tempo, visto il senso di “irrealtà” che a volte sembra aver inghiottito tutti quanti.

Non è una percezione solo soggettiva ovviamente, i dati parlano chiaro. Gli psicofarmaci rappresentano una delle principali componenti della spesa farmaceutica pubblica, emergono forme di disagio psichico che non erano altrettanto rilevanti nella psicopatologia del novecento: disturbi di panico, borderline, anoressia, fenomeni di ritiro sociale che riguardano ragazzi sempre più giovani.

Le risposte sul perché di questo andamento e sulle possibili cure le lasciamo ai medici, agli specialisti, agli esperti.  

Eppure l’accettazione, l’integrazione, la normalizzazione del problema psichico dovrebbe essere un compito dell’intera collettività.  D’altro canto è proprio una delle protagoniste del film, Benedetta, a lasciarci intravedere una possibile soluzione, semplice, ma potentissima: l’importanza della vicinanza, la necessità della condivisione, la lotta all’isolamento.