di Salvatore Marzolo
specializzando in psichiatria, membro del collettivo Ponti di Vista

“La prima cosa che ti insegnano a psichiatria è che il medico deve avere sempre vicino una via di fuga, tenere sempre le spalle alla porta”. Qualche giorno fa un mio collega mi ricordava che era stato questo il primo insegnamento che gli era stato trasmesso entrato in scuola di specializzazione in Psichiatria. Un mito collettivo, un linguaggio immediatamente comune, un preciso disegno di mondo consegnato nelle mani ancora ingenue di un giovane laureato con la vocazione acerba all’incontro con la Follia: “Ti ritroverai tu, solo, contro una persona pericolosa. Insomma, quando la situazione si farà complessa, fisicamente e/o emotivamente, preparati alla fuga, all’alienazione, convinciti che la questione non ti riguarda, scappa via senza voltarti indietro. Non rimanere.”
Non vorrei dire che la tematica della sicurezza nei e dei luoghi di lavoro e della tutela di se stessi e del servizio in cui si lavora non vada ricercata e ottenuta. Vorrei provare soltanto a problematizzare il fatto che sia stata tristemente la prima frase, “formativa”?, che avrebbe poi indirizzato la carriera di quel mio collega e amico, e con lui la mia. La nostra?
Che ne era della dimensione amorosa dell’incontro con l’altro sofferente? Della postura etico-politica del medico e ancora di più dello psichiatra? Che cosa rimaneva in quella frase detta così superficialmente, tra una visita ambulatoriale ed un’altra, delle lotte per la deistituzionalizzazione e la costruzione dei servizi territoriali? Perché quel tutor non aveva accennato anche all’importanza di ridare potere contrattuale alla persona con disagio mentale, o del decomprimere le tensioni e i sensi di colpa depositati nel campo magmatico delle sue relazioni significative come ad esempio quelle con i familiari, oppure alla necessità di imparare ad investire sul terzo settore sin da subito per operare secondo interventi quanto più possibili integrati tra sociale e sanitario? Perché non aveva indicato la necessità di pensare e costruire servizi dialogici che rimangano tra loro reciprocamente in una dialettica costante per ricucirsi, e quindi ricucire i brandelli delle esistenze impantanate delle persone che si rivolgono ai servizi per la salute mentale?
Che ne era, insomma, di quello che succedeva in quella stanza in quel servizio in quel quartiere tra quelle due persone, nel qui e ora di quell’incontro, prima dell’esplosione della potenziale pericolosità violenta e della sperabile fuga sicura? Perché il tutor aveva ritenuto non fossero questi i primi punti di repere da esplorare insieme al giovane medico in formazione?
Riaccendere il Forum ha oggi il compito quanto mai necessario di riaprire spazi di confronto e dialettica critica e conflittuale in un mare informe di angoscia deresponsabilizzante e burocrazia difensiva, di gestione economica della sofferenza personale e collettiva di cui si fanno portavoce gli utenti e gli operatori, di riduzione costante della complessità della condizione umana che prova dolore a pochi protocolli standardizzati e ad altrettanti contenitori, sempre più ordinati e puliti, in cui comunque violentemente collocarla, controllarla, gestirla. Raramente interrogarla, conferirle significato personale e collettivo.
Ripopolare il Forum, rivitalizzarlo e ricollettivizzarlo, si pone quindi oggi come un’ azione etico-politica di fondamentale urgenza. Per riuscire ieri come oggi, a permettere e a promuovere gli incontri tra esperienze eterogenee e contaminanti dei servizi di salute mentale e del loro rapporto intimo con la comunità di appartenenza, a costruire luoghi rassicuranti in cui raccontare queste esperienze perché nessuna spinta creativa e innovativa vada perduta, a tenere il fiammifero dell’utopia acceso nella realtà spesso buia e fredda dei luoghi dedicati alla formazione prima e al lavoro in prima linea poi.
Rileggere il Forum, risignificarlo e risognarlo, significa oggi come ieri, che chi si è sentito solo e stigmatizzato nella pratica clinica quotidiana dedicata e appassionata, non lo sia più. Che il burn-out possa diventare un racconto, che temi come la carenza di risorse economiche e di personale, la necessità della contenzione, la delega dei progetti di cura al privato, l’impossibilità a svolgere riunioni di equipe tra le varie figure professionali della cura, l’inutilità ad incontrare associazioni e cooperative sociali per co-costruire progetti di cura e di libertà condivisa con gli utenti, possano trovare uno spazio in cui vengano narrati e pertanto problematizzati, messi in questione, tra parantesi. E chissà risolti, trasformati.
Rincontrare il Forum, significa oggi la ripresa di una sfida di radicale epochizzazione dell’esistente del “qui non si può fare altrimenti” per coglierne i punti di frattura ai bordi sismici, per ricavare energia potenziale e rivoluzionaria proprio dalla loro rottura, dal nostro spezzarli in frammenti, per poi riassemblarli in maniera inedita, viva e pertanto curativa.
E significa farlo insieme.