Di fronte a immagini così orrende e dolorose che neanche possono abitare i nostri peggiori incubi, l’urgenza di testimoniarle dovette prendere il sopravvento. I disegni che porta fuori da Juqueri prefigurano quasi un reportage, una denuncia come quelli che solo tempo dopo arriveranno. Quelle denunce che non solo in Italia i più grandi fotografi documenteranno[1]. Altri, prima di Sambonet, avevano disegnato quegli interni e quelle “povere cose”. Avevano disegnato per sopportare la ristrettezza del tempo e dello spazio, obbligati com’erano al ricovero di forza. Sto pensando per tutti a Vincent Van Gogh. Sambonet entra e sembra avvertire la stessa angustia, lo stesso bisogno di raccontare per cercare di evitare il rischio dell’oggettivazione e della complicità.
Il giudizio inappellabile che si ritrova in ogni tratto di quei disegni travalica quel momento storico e risveglia l’urgenza di una dolorosa partecipazione critica intorno a ciò che oggi continua ad accadere.
Immagino Roberto Sambonet accanto al letto di contenzione mentre ritrae l’uomo legato e cerco di figurarmi i suoi sentimenti. Si tratta di un uomo di colore che doveva essere molto alto e forte, tanto da poter incutere timore. Il tronco è stretto al letto con un corpetto, le mani e i piedi sono legati.
In Italia oggi, in 8 su 10 dei circa 300 servizi psichiatrici di diagnosi e cura, la contenzione non è ancora stata abbandonata. Di routine in alcuni luoghi, più raramente in altri.
Sambonet guarda l’uomo ristretto sul letto di contenzione: non poteva non sentire il sentimento di disperazione finale che avverte chi è costretto a questa prepotenza. Sentimenti di rabbia, di dolore, d’impotenza, d’incapacità, di ribellione, d’inutilità, di fallimento che oggi le persone, con l’esperienza della contenzione, a fatica riescono a riferire. È talmente profonda la ferita di chi esce vivo da quest’esperienza che il racconto è quasi più doloroso dell’esperienza stessa. Come la fatica e gli inenarrabili turbamenti che hanno dovuto vivere i sopravvissuti dei lager, quei pochi, che hanno voluto affrontare la pena del ricordo.
Durante la sua permanenza in Brasile, Basaglia visita servizi e ospedali psichiatrici. Nello stato di San Paolo entra a Juqueri ed è probabile che gli uomini e le cose che Sambonet ha ritratto sono ancora lì a colpire il suo sguardo. Proprio da Juqueri avrà inizio poco tempo dopo la lotta antimanicomiale.
È particolarmente intenso il suo soggiorno a Belo Horizonte, nello stato di Minas Gerais. In questa regione, visita anche a Barbacena, un ospedale per cronici. L’impressione prodotta da questa visita è così intensa da lasciare Basaglia profondamente scosso e depresso. Così, quando la sera si apre il seminario, si rifiuta di parlare. C’è un silenzio lungo, pesante e solo dopo molta insistenza del pubblico, Basaglia prende la parola con dolore e con rabbia. Il pubblico è sconcertato. Gli chiede cosa fare per cambiare e che è impensabile di poter cambiare la società partendo dai manicomi e dalla psichiatria.[2] “Non è vero” afferma Basaglia “che lo psichiatra abbia due possibilità, una come cittadino e una come psichiatra: ne ha una sola come uomo. Come uomo, io voglio cambiare la mia vita.”[3]
Ritorno all’immagine di Roberto Sambonet di fronte a quell’uomo legato e sono certo che in quel momento, più o meno consapevolmente, Sambonet non avesse che un’unica possibilità per sostenere gli sguardi degli internati di Juqueri: essere uomo.
di Peppe Dell’Acqua
[1] Come si dirà più avanti, qui ci riferiamo, per dirne due tra i più importanti, a Luciano D’Alessandro nel manicomio Mater Domini di Nocera Superiore (1965-1968) e a Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati in un rapporto dai diversi manicomi italiani (1967-1968).
[2] Il riferimento è a un lungo testo di Ernesto Venturini, Aquarela do Brasil. La linea curva dell’utopia, in via di pubblicazione.
[3] F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Cortina Editore, Milano, 2000.