codicepenalePer andare oltre le Rems

Di Roberto Mezzina e Paolo Borghi

È stato presentato alla Regione Toscana lunedì 17 dicembre il libro Il muro dell’imputabilità, a cura di Franco Corleone.

Non vogliamo occuparci del libro, che merita di per sé attenta lettura per i contributi rilevanti che lo compongono, ma della proposta di legge di riforma del Codice Penale, che ne rappresenta un po’ il cuore. Essa di nuovo cerca di affrontare la questione del doppio binario, ovvero dello statuto speciale delle persone con disturbo mentale di fronte alla legge, nel nuovo scenario post-OPG. Tale tematica è sempre stata presente e dibattuta all’interno delle discussioni legate alla riforma psichiatrica, in quanto connessa all’ideologia manicomiale, all’equazione folle = incapace di intendere e di volere e quindi estromesso dal diritto di essere ascoltato e di difendersi nella fase processuale, per poi essere relegato, se pericoloso socialmente, in una istituzione psichiatrica ad hoc. Si trattava, com’è noto, del manicomio criminale, che era peraltro preesistente allo sviluppo dei manicomi civili provinciali, e che fu più tardi definito ospedale psichiatrico giudiziario. La proposta va quindi a toccare il nodo dell’imputabilità delle persone con disturbo mentale che commettono un reato, e il superamento delle misure di sicurezza detentive loro riservate, che oggi non sono più realizzate dall’ospedale psichiatrico giudiziario, ma dalle nuove Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Ricordiamo che la stessa dizione di Rems è comparsa successivamente, a denominare quelle che erano state correttamente chiamate per legge residenze per il superamento degli OPG (vedi art. 3 ter d.l. 22 dicembre 2011, n. 211, modificato dalla l. 81/2014).

È ormai tempo che ci si muova da quella che resta una legge di transizione, la n. 81 del 2014, finalizzata al chiaro obiettivo della chiusura della vecchia istituzione, verso un assetto diverso e con un chiaro indirizzo sul piano del diritto, adeguato e coerente con la costituzione, le leggi nazionali e le convenzioni internazionali.

La proposta di legge è stata sviluppata, col contributo di Giulia Melani (autrice di un ponderoso capitolo del libro), da Franco Corleone stesso, il quale ha ricoperto il ruolo decisivo di Commissario Straordinario per il Superamento degli OPG. Peraltro era già stato autore oltre vent’anni fa di una proposta analoga, dopo altri tentativi mai arrivati a buon fine (ricordiamo quella degli anni ‘80 di Grossi, Gozzini ed altri tra cui Franca Ongaro Basaglia, in particolare).

Tutti segnalavano la contraddizione rappresentata dalla persistenza del regime di non imputabilità per vizio (parziale o totale) di mente o incapacità di intendere e di volere, sancito dagli art. 88-89 del Codice Penale, a fronte della dirompente legge di riforma psichiatrica del ‘78 che aboliva di fatto lo statuto speciale sul piano del diritto del paziente psichiatrico, cancellando ogni automatismo nella nozione di pericolosità a sé e agli altri attribuita al disturbo mentale.

Questo nuovo contributo rappresenta uno sforzo certo meritevole in questa direzione. Viene apprezzata una coraggiosa e netta posizione abolizionista riguardante la non imputabilità per cause psichiche e le misure di sicurezza correlate, finora utilizzate per il c.d. folle reo. Viene abolito anche l’art. 89, e quindi la semi-imputabilità. In questo modo essa si adegua anche ai nuovi orientamenti stabiliti dalla Convenzione sui Diritti delle persone con Disabilità (art. 12, che dichiara l’uguale riconoscimento di fronte alla legge e della capacità legale). È positiva anche l’estensione delle garanzie, non solo relative al differimento della pena per motivi terapeutici, ma anche alle misure alternative. Eppure il progetto di legge apre numerose contraddizioni sul piano della reale applicazione dei dispositivi. Vediamole.

1. La principale di esse è che, se da un lato la persona è considerata imputabile, essa viene di fatto esclusa dal circuito normale della pena. Essa può finora essere ridotta in base all’art. 89, che invece verrebbe soppresso. In ogni caso, la carcerazione ordinaria nei confronti della persona con disturbo mentale viene evitata sia a livello di custodia cautelare – effettuata in un luogo di cura – che a livello di esecuzione di pena, attraverso la sospensione della stessa pena, o l’estensione delle misure alternative (vedi l’affidamento in prova simile a quello per le persone tossicodipendenti). Infine il reo-folle non verrebbe sottoposto ad una normale pena in un istituto carcerario, ma collocato in una delle cosiddette articolazioni psichiatriche, ossia all’interno di un servizio o un luogo apposito per persone con disturbo mentale all’interno del carcere, riproponendo paradossalmente il doppio binario che si vuole superare.

2. La buona intenzione della scelta no al carcere è quella di salvaguardare il malato, in quanto soggetto debole, dal difficile contesto degli istituti di pena, spesso caratterizzato da dinamiche violente, di isolamento e di espulsione. Piuttosto si dispone di collocare il malato (in modo coattivo comunque) in luoghi ritenuti di cura, ma sempre e comunque diversi da quelli del sano-reo. Sorprende quindi che non si insista, nella proposta di legge, prima di tutto sulla realizzazione del diritto fondamentale, affermato dall’articolo 32 della Costituzione, a ricevere le cure da parte dei servizi pubblici di salute mentale (Dsm) afferenti al Servizio Sanitario Nazionale, permanendo nel normale contesto detentivo, senza che si approntino subito speciali meccanismi di salvaguardia/esclusione da esso. Il che è stato sancito dal DPCM del 2008, in ossequio al principio dell’equivalenza del diritto alla cura per i cittadini che sono detenuti rispetto ai soggetti liberi. Certo l’assistenza in carcere da parte dei normali servizi di salute mentale operanti all’esterno è ancora poco attuata, date le ristrettezze di personale e soprattutto la carenza di visione di molti servizi di questo paese sulla tutela di coloro che sono a rischio di deriva sociale e giudiziaria. Ma la soluzione dello spazio diverso, dove collocare, spostare, delegare, è comprensibile per coloro che necessitano di particolari cure, per un tempo determinato, e non per tutti. Altrimenti quella che una volta era una misura di sicurezza detentiva, ove si inverava lo statuto speciale del disabile psichico, si sposterebbe paradossalmente all’interno del carcere, all’interno delle articolazioni psichiatriche.

3. Chi deciderebbe tale collocazione speciale, il giudice? Senza valutazioni peritali o del servizio stesso? La proposta non lo dice. Il malato sarebbe di nuovo non soggetto di diritto, ma solo oggetto di cura, e per via giudiziaria, aprendo un conflitto con le garanzie previste dal Tso. La capacità legale di esprimere il consenso alle cure sarebbe di fatto sospesa.

4. Ma che cosa sono oggi queste sezioni, e che cosa potrebbero diventare? La loro identificazione ed i collegamenti con le altre strutture sanitarie rimangono vaghi e incerti, comunque finora esse non sono state verificate né adeguatamente studiate, sia nei loro esiti sanitari (e rieducativi), sia sotto il profilo del rispetto dei diritti umani. Le articolazioni psichiatriche inoltre potrebbero diventare contenitori di medio o lungo termine di un coacervo di condizioni diagnostiche: non solo psicosi, ma anche disturbi di personalità così frequentemente rappresentati in ambito detentivo e che spesso arrecano disturbo all’istituzione; fors’anche disturbi dell’adattamento o di ansia pur così frequenti in condizioni di detenzione, e quant’altro.

5. Resta infine aperto il destino delle Rems, di cui la proposta legge non si occupa: si andrebbe verso una loro nuova funzione o una definitiva soppressione?

In conclusione: l’abolizione degli OPG ha rappresentato il completamento della legge 180, laddove lo statuto speciale inverato dal trinomio folle-incapace-pericoloso era già abolito integralmente se non fosse stato per il permanere dei suddetti articoli del Codice Penale. Tuttavia ogni nuova proposta legislativa dovrebbe evitare il rischio che le contraddizioni determinate da comportamenti-reato si scarichino (e vengano gestite) unicamente sul piano della cura, denegando il valore rieducativo della pena, sia pure all’interno dei gravi limiti determinati dalle condizioni attuali delle carceri italiane. Tutte le questioni legate alla pena rischiano di essere appiattite, in maniera aprioristica, sul piano terapeutico. Dobbiamo essere altrettanto consapevoli che fino a quando pena e cura si intrecciano a tal punto da non capire se l’una diviene preminente o sostitutiva dell’altra, il doppio binario esisterà sempre. Molti in Italia (tra cui noi di Trieste) hanno sempre ritenuto importante separare la pena dalla cura, proponendo che se la persona che sconta una pena ha bisogno di essere curata, viene assistita ma all’interno del circuito penitenziario o nelle alternative al carcere previste per tutti i soggetti detenuti. La cura può richiedere temporaneamente l’allontanamento dal circuito penitenziario della persona presa in carico, in un luogo di cura appunto, ma senza sostituire questo a quello. Invece, nel momento in cui il malato-reo entra in una dimensione di pena sovradeterminata dal terapeutico, non si ricrea forse una discriminazione fondata sullo statuto speciale precedentemente negato? Ciò potrebbe lasciare di nuovo spazio ad atteggiamenti deresponsabilizzanti, forse perfino giustificazionisti, nei confronti della persona con disturbo mentale che ha commesso un reato, negando al tempo stesso l’uguaglianza di fronte alla pena con gli altri cittadini: il diritto alla pena, ma ad una pena, beninteso, con tutti gli adattamenti e le alternative previste.

Riteniamo che sia ora necessario operare una attenta analisi e un confronto dialettico su questi temi di notevole complessità, che di fatto non erano stati completamente risolti dalle Commissioni istituite per i Decreti delega della legge di riordino della giustizia nel 2017. Un tanto è necessario per raggiungere il più alto livello di consenso possibile, evitando rigidità e chiusure. È indubbio che i tempi sono maturi per mettere mano al Codice Penale, nell’ambito della contemporanea riforma del processo.

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