“In dieci anni ho attraversato luoghi terribili, ingiusti, luoghi che mi avevano trasformata, deformando la mia idea di giusto e sbagliato. All’inizio di questo percorso mi sentivo sorella di chi soffriva come me e come me viveva la sua vita ricoverato. A metà strada ero diventata carnefice e contribuivo all’orrore distruggendo e odiando tutto ciò che incontravo, soffocando il più possibile i sensi di colpa, giustificandomi con la malattia”. Comincia così un libro ironico e tagliente, ma non per questo meno duro e violento. È il nuovo romanzo di Alice Banfi, al suo secondo libro biografico, Sottovuoto. Romanzo Psichiatrico (Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2012).
Alice è un’artista milanese che ha attraversato i luoghi della moderna psichiatria. Nel suo primo libro, Tanto scappo lo stesso (2008), raccontava la sua esperienza nel dipartimento di salute mentale di un grande e noto ospedale milanese. Una lotta quotidiana contro medici, infermieri, contenzione e psicofarmaci, ma anche contro se stessi alla ricerca di un difficile equilibrio. Questa volta, Alice racconta della sua esperienza in una struttura molto grande che ha tutti i tratti del vecchio ospedale psichiatrico, “Villa Crispina”, e in parte in una comunità più piccola e relativamente più accogliente. Nei luoghi di quella moderna psichiatria che, come scrive Maria Grazia Giannichedda nella prefazione, “ha preso il posto del manicomio ma non lo ha abolito”.
Alice racconta, senza ipocrisie e falsi compiacimenti nemmeno verso se stessa, l’umano e il disumano che è presente in questi posti. Un racconto che è parte di una consapevolezza. “Ho cambiato rotta e seguito in modo inconscio questa strada, quella delle parole, quella delle persone, raccontando la mia storia e alleandomi con chi stava lottando contro il complesso manicomio moderno, fatto di idee cattive, cattive pratiche, interessi e luoghi disumani”. E racconta anche quegli aspetti che solo chi è passato per questi posti può dire con tanta naturalezza. Delle violenze e dei furti tra ricoverati, ma anche delle amicizie e degli amori clandestini, dei medici bastardi e distanti, ma anche di un’infermiera capace di abbracciare e comprendere. Un mondo recluso e invisibile con regole facili da apprendere, “se non volevi che ti derubassero dovevi rubare, se non volevi che ti insultassero dovevi urlare più forte, se non volevi che ti picchiassero dovevi saper picchiare, darne dimostrazione e aggregarti al gruppo delle più forti”.
Ogni volta che entrava a Villa Crispina, ad Alice “sembrava di andare in guerra”, di dover schiacciare gli altri per non essere schiacciata. E qui comincia un mondo di piccole e fondamentali strategie di sopravvivenza e adattamento. La lotta per ottenere il caffè nelle ore non consentite, per una sedia, per difendersi dalle invasioni di blatte e scarafaggi, per rubare senza essere scoperti, per fumare e bere oltre ogni divieto. Lo sguardo di Alice è netto e severo verso ciò che la circonda, ma è anche onesto nel riconoscere i propri errori e limiti. Alice ruba e inganna, sfonda porte e finestre, si autolesiona e vomita ogni volta che mangia. Ma è come se avesse sempre di fronte a lei un doppio nemico contro cui combattere. Da un lato la propria sofferenza, dall’altro un sistema di medici e cure impegnato a custodirla più che curarla o assisterla.
Aspettare, come in un brutto parcheggio, senza speranze: “Non sognavamo la guarigione, aspettavamo passare il tempo, aspettavamo fumando”. Ma in questa lotta quotidiana, raccontata con rabbia e ironia, c’è anche lo spazio per innamorarsi, in modo clandestino e contrario alle regole della comunità, di un proprio compagno di disavventure: “Io e Dado eravamo incollati uno all’altra come due cozze, con i nostri momenti di segreta intimità. Se anche non eravamo felici, ci sentivamo contenti”. Ed è questo stile narrativo intimo e spontaneo che fa di questa sorta di piccolo diario personale un libro bello e intelligente. Che dovrebbe farci interrogare su quali siano i reali livelli di assistenza ai quali ha diritto un sofferente psichico e su quanta strada è necessario percorrere affinché il camice bianco del medico psichiatra smetta di assomigliare, orribilmente, alla divisa di un agente di custodia. (dario stefano dell’aquila)