Intervista a Michele Zizzari regista di “Le Storie Sospese” Compagnia Il Dirigibile – Dipartimento di Salute Mentale A.u.s.l. di Forlì

1- Come e quando nasce la tua esperienza col disagio sociale e con il gruppo il Dirigibile, in particolare?

L’ esperienza teatrale prende il via nell’ottobre del 2000 con l’idea di potenziare e diversificare le attività terapeutiche e riabilitative del Centro Diurno di via Romagnoli del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl di Forlì. La proposta fu subito accolta dal dottor Luigi Missiroli, allora dirigente del DSM. Le attività impegnano mediamente e attivamente 5 operatori, diversi volontari, collaboratori esterni e – tra dimissioni e nuovi ingressi – un gruppo di circa 20 ospiti. La compagnia così composta è stata ospitata e selezionata per una serie di eventi e rassegne di rilievo nazionale e internazionale.
Per ciò che riguarda invece la mia personale esperienza col disagio sociale, nasce presto, nell’adolescenza, direttamente impegnato da subito a sostenere me stesso, fratelli e coetanei ad affrontare le difficili condizioni di vita del quartiere dove sono nato e della realtà sociale in cui eravamo tutti chiamati comunque a crescere. Tra l’altro ero anche uno dei pochi ragazzi che frequentava con costanza e passione la scuola e che quindi si rendeva disponibile in ogni evenienza che richiedesse una certa preparazione. Ho ad esempio cominciato ad aiutare fratelli e coetanei nei compiti e nel convincerli a frequentare la scuola e a perseguire comunque un’istruzione. Ho dissuaso altri dal prendere una carriera delinquenziale, scelte quasi obbligate in certi ambiti. E alcuni avevano problemi, non solo caratteriali, perché segnati dall’ambiente familiare e sociale (parlo di violenza, di genitori detenuti, eccetera) ma anche di disagio psichico e fisico. Ero animato da buoni propositi e cercavo di metterci una buona parola un po’ per tutto. Così facendo ho scoperto che possedevo un’attitudine spontanea a mettere insieme le persone, a farle interagire tra loro positivamente, a valorizzare gli aspetti positivi di ognuno. Questo alla lunga mi ha portato verso l’animazione sociale, anche politica, poi alla scrittura e al teatro, e naturalmente a una scrittura e a un teatro impegnati, con finalità civili e sociali. Ho così cominciato a operare (per anni solo a puro titolo volontario) con ragazzi di strada, disabili, figli di genitori detenuti. Faccio praticamente questo da circa trent’anni. Naturalmente negli anni l’impegno è diventato professionale, sia a livello artistico che a livello di operatore creativo-sociale. Oggi posso dire di avere sviluppato un’esperienza nel campo davvero importante. Senza dubbio devo molto al contesto e al luogo dove sono nato, che mi hanno permesso di acquisire una sensibilità e un’attenzione particolari proprio verso chi vive un disagio (sia esso fisico, psichico o sociale).

2- Il gruppo “Il Dirigibile” è composto da operatori e pazienti del Centro Diurno Psichiatrico di Forlì, com’è stato accolto da entrambe le parti lo strumento “teatro”in questo contesto non specificamente “teatrale”?

Lo strumento “teatro” è stato accolto subito bene, sia dagli utenti che dagli operatori, adesso tutti attori del Dirigibile. Sicuramente una certa dose di diffidenza iniziale c’è sempre, ma il teatro, le molteplici attività a esso connesse, la sua natura coinvolgente e la sua fascinazione hanno presto conquistato tutti, creando una realtà gruppale nuova, non più solo fondata sul rapporto operatore-paziente, utente-servizio, ma su un nuovo complesso di relazioni e motivazioni che ponevano tutti sullo stesso piano, compagni e compagne di un viaggio che aveva il sapore di una sfida, di un’esperienza diversa e avventurosa, anche difficile, ma gradita, piacevole, dove tutti insieme si lavorava per un progetto e una creazione comune.

3- Qual’è il confine, se c’è, tra l’aspetto artistico e quello terapeutico in questo lavoro?

L’arte in generale, e il teatro in particolare, sono per loro stessa natura terapeutici. Non c’è alcun bisogno di renderli quindi tali forzatamente. Non lo dico io, ma già da Aristotele che considerava il teatro “uno strumento curativo dell’anima” (e non dell’anima del “malato” ma dell’anima di tutti), all’Homo ludens di Johan Huizinga del 1939 che vedeva nel gioco e nella simulazione un’attività strategica per la crescita sana della persona e delle sue relazioni con la comunità, fino alle esperienze volute da Franco Basaglia e a quelle più recenti ormai diffuse anche su tutto il territorio nazionale, la cosa è ormai più che scontata. Pertanto possiamo dire che l’aspetto terapeutico e quello artistico sono profondamente connessi e intrecciati. I due aspetti non si escludono, né sono alternativi, anzi: più lo spessore poetico e artistico (se così possiamo dire) è elevato più fa bene e più è terapeutico, perché ciò che viene fatto bene fa sempre meglio di ciò che viene fatto male, non c’è dubbio. Per questo sono assolutamente convinto che tutti devono essere messi nelle condizioni di ricevere il meglio, sempre. Ecco perchè impegno i miei attori (chiunque essi siano) nella creazione di qualcosa che valga la pena di creare, per sé e per gli altri, per il proprio e per l’altrui godimento, per la propria e altrui soddisfazione, sia a livello emotivo e sensoriale che intellettivo. Altra questione è il professionismo, ma immagino che qui non ci sia spazio per affrontare anche questo aspetto della cosa.
4- Facendo una riflessione critica sul tuo lavoro, ritieni che ci possano essere “implicazioni negative”nell’esporre la diversità al pubblico?
Per me fare teatro non è un “esporsi”, un “esibirsi” e neppure una “prestazione” di carattere ginnico ad esempio. E’ piuttosto un “proporre”, un “donare”, un “comunicare”, un “condividere”, un “esplorare” visioni, mondi, punti di vista, emozioni, narrazioni che colgono e svelano aspetti insondati, spesso celati, profondi, di noi, degli altri, dell’altro da sé, della realtà e dell’esistenza, con modalità impreviste, poetiche, coinvolgenti, illuminanti; che siano capaci di arricchirci, di farci conoscere meglio chi siamo, cosa desideriamo, come viviamo e forse come potremmo vivere meglio, mostrando le contraddizioni e gli aspetti positivi e negativi della società. L’equivoco nasce quando si confonde il teatro con la “recita”, col “saggio di fine anno”, con la “prestazione” ginnica, e quindi con l’esibizione, con l’esposizione.
Certo, negli anni ho anche assistito a esibizioni tristi e inaccettabili, da condannare, dove il “diverso” viene semplicemente esposto e strumentalizzato, spesso per soddisfare il prurito intellettualistico di qualche sedicente regista di ricerca. Questo è da evitare, perché svilisce la persona, non l’aiuta, non produce autonomia, crescita e abilità, ma assoggettamento. E qui non contano i titoli. Io ad esempio sono autodidatta come uomo di teatro. Naturalmente non mi riferisco in nessun caso alle rassegne DiversaMente e MoviMenti promosse dal Progetto Teatro e Salute Mentale che invece vede in scena tutte esperienze di altissimo valore artistico e di straordinaria efficacia terapeutica e sociale, cosa che dà testimonianza della serietà, della lungimiranza progettuale e della eccezionalità dell’iniziativa.
Per concludere posso dire che per esperienza, se c’è qualità, passione, onestà e sollecitudine verso gli altri, le attività teatrali in ambito sociale non producono alcun tipo di rischio, ma indipendenza, nuova consapevolezza, cambiamento, salute psicofisica delle persone, qualità delle relazioni umane e benessere sociale. Come nel gioco, così il teatro ci restituisce alla realtà arricchita di qualcosa che ci servirà per la vita.
5- Credi che il percorso teatrale possa dare una nuova direzione alle “storie sospese”?

Forse ho già risposto alla quinta domanda in queste ultime frasi. Penso di sì.
Le nostre storie sospese (parlo di quelle di coloro che vivono nel disagio, di quelle dei nostri attori, ma in generale anche di quelle di tutti) possono senz’altro trovare un senso, una strada, un’evoluzione positiva, perché il percorso teatrale le mette alla prova, le lascia esprimere e quindi comprendere meglio, le rende disponibili al cambiamento, risolvibili e quindi modificabili secondo i propri desideri, secondo le proprie più profonde esigenze, secondo un disegno cercato. In questo modo nulla sembra senza soluzione o semplicemente sospeso, improbabile, ineluttabile, messo là, da una parte; ma tutto diventa possibile.
Come ad esempio quella di vivere e viaggiare, anche se soltanto per un mese, da attori di una vera compagnia di teatro, tutti insieme, con passione, tra la gente che ti apprezza, ti ammira e ti applaude, riconoscendo in te la forza, il valore, la bravura con cui offri di palco in palco il dono prezioso del racconto, dell’emozione, della poesia. E sei tu che doni, con la tua voce, il tuo corpo, le tue parole, col tuo essere, finalmente, essendone consapevole. Credo proprio che il teatro sia senza dubbio uno strumento per creare opportunità e percorsi di partecipazione attiva e per sperimentare un nuovo protagonismo sociale, soprattutto per chi – per un motivo o per un altro – trova difficoltà nella vita e nella società.

Grazie, Michele Zizzari

tratto da: http://www.teatro.org 22/11/2009

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