Quello dello psichiatra pazzo è da sempre un luogo comune che appartiene all’immaginario popolare. Quando però accade per davvero qualcosa di simile, dobbiamo fermarci a pensare. Specialmente se accade nel cuore del Texas, in una cittadella militare che si chiama Fort Hood, zona nevralgica per i rapporti tra gli Stati Uniti e le loro guerre, perché lì si preparano i soldati in partenza per l’Iraq e l’Afghanistan, e lì arrivano i reduci con la loro psiche spesso distrutta.

Il fatto è noto. Come impazzito all’improvviso, Nidal Malik Hasan spara alla cieca contro coloro che dovrebbero essere i suoi pazienti, ne uccide 13, molti ne ferisce, e la strage assumerebbe dimensioni ancora più terribili se un’intrepida poliziotta di anni 21 non intervenisse subito colpendo a sua volta lo psichiatra. Obama si precipita a Fort Hood. Viene naturalmente aperta un’inchiesta che dovrà decidere se si tratta di ”semplice” accesso di follia, dovuto allo stress di chi vive ogni giorno traumi anche spaventosi, o se vi si intreccia una matrice etnica e magari una pista terroristica.

Nidal è un profugo palestinese che si è integrato pienamente nella società americana condividendone il ”sogno”. Ha una carriera impeccabile, anche se ci si affretta a classificarlo come uno psichiatra alquanto mediocre. Da poco gli avevano comunicato che doveva partire, lui stesso, per Kabul, e lui non voleva andare in Afghanistan, avrebbe preferito restare a casa, in America. Tutto fa pensare che l’idea di partire, al culmine di un’esperienza durissima da vivere, gli fosse insopportabile e che la sua psiche abbia catastroficamente ceduto.

Ma vengono anche altri pensieri: per esempio, che la guerra sia un mostro che spacca l’esistenza sia di chi la fa sia di quelli, come Nidal, che hanno davanti, ogni giorno, lo spettacolo dei disastri che essa produce negli uomini, e che per giunta ha il compito di curarli. Pensieri ovvi per una coscienza critica appena disincantata, ma che il ”sogno americano” non può ospitare. Deve piuttosto rimuoverli e cancellarne le tracce.

Perciò Obama vola immediatamente nella cittadella sperduta nel Texas a elogiare i veterani di tutte le guerre che sono cristiani e musulmani, ebrei e hindu, credenti e non credenti, insomma espressione di quel popolo delle diversità che è la società americana. Abbiamo visto ora il peggio – soggiunge -, ma abbiamo visto anche il meglio. E allude a Francheska Velez, la poliziotta eroina di padre colombiano.

Vale la pena di considerare più da vicino cosa è Fort Hood, questo fiore all’occhiello degli Stati Uniti. Non è un campo, e in verità neanche una cittadella: è una città vera e propria con decine di migliaia di esseri umani che ci vivono, uomini donne e bambini, con uno stadio in cui si sono celebrati i funerali solenni delle vittime (e in prima fila c’erano le carrozzelle con i neonati), ma anche con un Resistence Campus dove appunto si impara a resistere al cosiddetto Combat Stress. Questo campus è diretto dallo stesso centro medico cui apparteneva Nidal, e in esso è anche attivo uno Spiritual Fitness Center il cui programma è già trasparente nel nome.

Una città di 40 chilometri quadrati, un meccanismo che non può incepparsi. E dove vengono sperimentate non le armi o le tecniche di combattimento, ma piuttosto ogni strategia psicologica, tutte le tecniche per addolcire la psiche e per fortificare gli animi: un’immensa clinica a cielo aperto per rendere duttili i corpi e le anime e per sanare ”ferite” forse insanabili. Tecniche per salvare l’anima, di difesa ma anche di offesa.

Se il programma di sviluppo, che voleva sfruttare i poteri paranormali a vantaggio della strategia di guerra, fosse ancora all’ordine del giorno, Fort Hood sarebbe probabilmente il posto più adatto per sperimentarlo allo scopo di costruire uomini capaci di ”fissare le capre” (c’è un film sul tema che si può andare a vedere in questi giorni). Il soldato deve diventare un superuomo con poteri eccezionali; poi, quando torna ridotto psichicamente a pezzi (se torna), allora lo si raccoglie con un cucchiaino terapeutico e si tenta di convincerlo che la vita è bella.

Che significa ”follia”? Tutto e niente, come sappiamo bene. È un’etichetta che permette di far rientrare le cose nei ranghi, il non rappresentabile in una scatola con sopra un nome. Ci mettiamo dentro anche il gesto omicida dello psichiatra Nidal che a un certo punto non ce la fa più, come ci possiamo mettere tutti i suicidi registrati nel recente passato a Fort Hood. E la serie di eventi che sicuramente seguiranno. Poi, ogni volta, chiudiamo il coperchio.

Qui, a Trieste, abbiamo imparato qualcosa sulla malattia mentale. Per esempio che questa ”malattia”, trattata come tale, rinchiusa in se stessa, spesso attraverso la moltiplicazione artificiosa delle sindromi, produce altra malattia in una catena inarrestabile. Potremmo forse partire da questo per farci un’idea della ”follia” dello psichiatra palestino-americano Nidal Malik Hasan.

Pier Aldo Rovatti

(da Il Piccolo del 13.11.2009)

1 Comment

  1. Leda Cossu

    Mi soffermo su due punti dell’articolo di Rovatti.
    Il primo “Tecniche per salvare l’anima, di difesa ma anche di offesa”
    Come può un essere umano convivere con questa contraddizione? Lenire le ferite ed insegnare a crearne delle altre, in nome della stesso sapere che può curare, ma anche ferire,distruggere. Non è un sapere medico normale quello che può accettare entrambe le logiche, curare/distruggere, difendersi/offendere. O dalla parte dell’uomo, o contro. Povero Nadil, l’atto finale è una logica conseguenza.. distruggersi, distruggere.

    Ed ancora nell’articolo: la “malattia, trattata come tale, rinchiusa in se stessa, spesso attraverso la moltiplicazione artificiosa delle sindromi, produce altra malattia in una catena innarrestabile”, mi fa pensare a Pi.
    Conosco Pi, un nome così per una persona vera, un amico mio e di mio marito che lui ha conosciuto quand’era in vita, pur abitando in un altra città.
    Ha molti talenti Pi, ha perduto un affetto, inseguito un po’ di sogni ed ha finito con lo sradicarsi, perdere il lavoro, la casa.. a 60 anni. Non riesce più a stare solo, quando è solo un’angoscia acutissima lo sconvolge.
    O trovare casa/lavoro/socialità.. o andare alla deriva. Guardo ai suoi talenti, è anche buono, onesto, molto lento.. ma per assistere mia madre penso che vada bene. Ha persino un diplomino di assistenza. Lo conosco da molti anni. Viene. Mia madre non ha bisogni speciali, 88 anni, un po’ di arteriosclerosi, non ha bisogno di assistenza nell’igiene, solo di essere accompagnata a far la spesa e di una presenza/non presenza in casa. Sapere che c’è qualcuno, la casa è a due piani, la mamma è abituata a star sola.
    Io che già scavo le trincee a forza di camminare fra una casa e l’altra (abito nella casa accanto) penso che con la presenza di Pi in casa riduco l’andirivieni e sono più tranquilla quando mi assento. Può assentarsi anche Pi, mamma può anche stare da sola, se Pi sta via tutto il giorno basta che me lo dica che lo sostituisco. Gli do una paghetta, circa la metà di una badante, non lavora come una badante, non pulisce la casa (c’è già una persona) non spende nulla per vivere, cucino io.
    Eh si, cucino io perché Pi è angosciato all’idea di cucinare per non continuare a star solo, mangiar solo. E nemmeno mamma accetterebbe che fosse lui a cucinare.. almeno per ora.
    Cucino per me e per loro, articolando i piatti come in un puzzle. Mamma un po’ alla volta si abitua alla presenza di Pi, di passo in passo, mangiando con loro, arrivano a mangiare assieme.. così lui è meno solo, mamma invece preferirebbe mangiare da sola, ma si abitua alla presenza discreta di Pi.
    Va tutto bene, l’ansia di Pi per il futuro c’è sempre, ma IL FUTURO SI COSTRUISCE OGNI GIORNO dico io, passo dopo passo, il mio presente di oggi è il frutto di tutti i passi dei giorni scorsi.
    Pi condivide.. ma la testa è sempre lì, sulla diagnosi: è depresso, la psichiatra gliel’ha confermato, i pochi parenti condividono e lui si aspetta ogni giorno che con le compresse la depressione passi. Cosa dici? mi chiede e giù a voler discorrere di compresse, cure ecc. quello che più o meno parlavano nel gruppo di automutuoaiuto, dove la conduttrice, un’ex paziente… condivide la diagnosi, si parla di diagnosi, compresse.
    Dissento sulla diagnosi… ovviamente scherzo perché è davvero depresso, ma le immagini possono anche essere diverse, secondo me soffre di “orfanaggio”, Pi si sente solo, orfano.
    OGGI Pi ha ancora tempo, per costruirsi un altro futuro, piano piano, mamma non ha tanta voglia di partire per l’al di là, c’è ancora tempo, per guardarsi attorno.
    Ma Pi ha quel pensiero fisso, la diagnosi, quei colloqui, quel gruppo e quei parenti: tutti gli chiedono se sta meglio, non sta meglio, se prende i farmaci o non li prende, se non guarisce deve cambiare i farmaci… tutto ruota su farmaci e diagnosi anziché sulla vita.
    La diagnosi, quella fossa dove Pi ha infilato la sua vita e dove cerca di infilare la mia.. senonché qualche anticorpo ce l’ho (benedette esperienze).
    Facciamo colazione assieme alla mattina, ci svegliamo presto e le case sono una accanto all’altra. Ho proibito a Pi di parlarmi della sua “malattia”, di mettere sui miei 60 kili i suoi 500 della depressione, la chiama così, come una sorella che si porta appresso, una scimmia sulla spalla. Ogni tanto gli lascio una fessura per parlarne, ma il più delle volte ho afferrato minacciosamente una scopa. Non gli chiedo di cacciare “Sorella Depressione”, gli chiedo di parlare a questa sorella e a se stesso del resto della sua vita, del coro in cui si è inserito, dei due giorni alla settimana dell’orto biologico (Pi dice che gli piacerebbe lavorare la terra.. e ci prova), delle amiche ed amici che gli ho presentato, del ritmo della sua giornata in cui ci sono tanti puntelli.. di non identificarsi insomma con la diagnosi. E’ proprio maleducato il mio amico Pi, non nei modi, ma non è tutta colpa sua, ma della cultura in cui tutti l’hanno condotto: un’ottica di vita vissuta attraverso un giudizio di sè.
    Pi diventa una diagnosi, nella quale si identifica, è fortissima questa cosa.
    Parliamo di sofferenza anziché di diagnosi? vediamo come vivere per alleviarla, la sofferenza c’è, fa parte della vita, può convivere con la vita e la vita va guardata per quello che è non attraverso il vetrino colorato della diagnosi.
    Non voglio dare ricette, né fare altre diagnosi, vorrei vivere accanto a Pi, alle persone sofferenti come una vicina di casa, di vita, senza essere sommersa nei miei 60 kili di 500 kili di una diagnosi maleducata, invadente, povera di vita.
    Oggi Pi è andato in collina, dove mia sorella ha un orto biologico che sta organizzandosi per la pensione. E’ tornato a casa bello tonico, senza la scimmia sulla spalla, mi ha regalato orgoglioso un sacchetto di patate, dei kiwi e delle pere un po becchettate dagli uccelli.
    Domattina parleremo di questo e se l’angoscia di Pi per un futuro che distoglie dal presente ci sommergerà.. mi destreggerò fra un po’ di vicinanza, una scopa, calandoci più piacevolmente sul giorno che viene.
    Iniziare una giornata è delicato per tutti, anche per me.
    Un pettirosso timido mi viene a trovare tutte le mattine appena inizia il freddo, intimidito da un nuvolo di passeri si allontana e poi torna. I passeri si muovono in gruppo, lui da solo, ma ha tanti amici, tutti i miei vicini di casa lo riconoscono. Ho voglia di guardarlo, di salutare il giorno, sono curiosa di conoscere i sogni notturni di Pi, se ha imparato a ricordarli, cosa ha letto la sera prima, cosa farà oggi.

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