matdi Anita Eusebi.

«Non è il taglio degli investimenti in tecnologie sanitarie o strutture residenziali quello che può determinare una caduta della qualità. Ma è il taglio dell’unica tecnologia che vale per la salute mentale: la tecnologia umana, rappresentata da operatori competenti, motivati, empatici, che hanno a disposizione una risorsa fondamentale che non è il denaro, ma il tempo, per strutturare una relazione terapeutica con una persona che ci chiede aiuto». Con queste parole Fabrizio Starace, direttore del DSM-DP di Modena, ha aperto lo scorso 17 ottobre a Modena l’edizione 2015 di Màt – Settimana della Salute Mentale.

Introducendo ai temi delle lezioni magistrali della cerimonia inaugurale, Starace ha ribadito come tra i principi generali delle politiche di salute mentale rivestano un ruolo fondamentale l’empowerment di utenti e familiari, la partecipazione degli stessi alla vita dei servizi, la lotta all’emarginazione sociale e all’esclusione delle persone con disturbi psichici, l’affermazione di una cultura della ripresa, del recupero, della guaribilità, nella piena consapevolezza di quanto sia significativo il contributo di fattori extra clinici nel determinare decorso ed esiti delle malattie mentali. «Siamo tutti consapevoli che un rinnovamento sia necessario. La questione non è quante risorse, ma come le risorse vengono impegnate. Ed è una questione che non appartiene soltanto ai tecnici, è un’operazione, si direbbe, di politica “alta” – ha precisato Starace – alla quale tutti sono chiamati a partecipare. In modo particolare i diretti interessati, che oggi assumono un ruolo sempre più sfidante e puntuale quali interlocutori sempre più responsabili e consapevoli sul terreno delle pratiche, della valutazione delle stesse, della loro efficacia».

E della missione politica della psichiatria, di come riguardi i determinanti sociali e come l’intervento degli addetti ai lavori debba essere significativo in tal senso, ha parlato Stefan Priebe, ospite di Màt 2015, una figura tra i più influenti docenti e ricercatori nell’ambito della psichiatria sociale della nostra epoca. «Come è ben noto, tra i principali fattori che contribuiscono a una cattiva salute mentale troviamo le esperienze traumatiche durante gli anni dell’infanzia, la disoccupazione, la povertà, uno scarso livello di istruzione, le disuguaglianze sociali e le conseguenti condizioni di isolamento, per non parlare della guerra, delle persecuzioni, delle torture. Di qui la necessità – ha affermato Priebe – di iniziative concrete che mettano in “pratica” l’evidenza “teorica” della psichiatria».

Che cosa si dovrebbe fare? «Ovviamente, per ottenere miglioramenti sostanziali in materia di salute mentale pubblica, c’è bisogno di cambiare la società e mettere in atto tutti quei fattori che promuovono la salute mentale. La società deve cioè garantire condizioni positive e sicure negli anni delicati dell’infanzia, occorre assicurare la pace all’interno e tra le nazioni, sradicare la povertà, garantire una buona istruzione per tutti, promuovere la coesione sociale, lottare per la piena occupazione e contro le disuguaglianze sociali nella direzione di un gradiente sociale più equilibrato». Parole belle e importanti, ma come si può arrivare a tutto ciò in concreto? «Ci sono metodi individuali e sociali. Cambiare le regole e i processi all’interno della società è chiaramente innanzitutto un compito politico», ha ribadito Priebe. «Sono i politici a prendere decisioni sulle attività militari, le spese per l’istruzione, la previdenza sociale, il mondo del lavoro. Ma i politici non sono esperti di salute mentale: dovremmo allora forse limitarci a fornire loro la nostra visione di esperti e basta? Questo è quello che sembra essere stato l’atteggiamento dominante nel corso degli ultimi decenni. Ecco, io penso che tale astensione da una partecipazione politica attiva sia stata un grave errore, sia per le persone con disturbi mentali sia per i professionisti del settore».

Priebe ha parlato dunque dell’impegno politico come di un imperativo morale a livello locale, nazionale e internazionale, sottolineando in particolare due aspetti alla missione politica della psichiatria. Ha ricordato, in primo luogo, come storicamente, quando la psichiatria e la società si sono aperte a un importante interesse reciproco, siano avvenute grandi riforme nell’ambito di salute mentale e con ampio sostegno pubblico, con chiaro riferimento alla rivoluzione basagliana e all’approvazione in Italia nel 1978 della legge 180. Quindi ha puntualizzato, in secondo luogo, come l’impegno politico risulti essenziale per una società partecipativa e per una salute mentale di comunità, salutandoci con un interrogativo saggio e provocatorio: «Che credibilità possiamo avere come professionisti e quale rilevanza sociale, se ci preoccupiamo di pubblicare studi teorici in riviste scientifiche, ma non ci interessa l’azione politica necessaria per l’attuazione pratica di tali studi? La missione politica, non soltanto la scienza in sé, ha creato i progressi di cui oggi disponiamo».

Sulla scia dell’intervento di Priebe, si sono collocate le argomentazioni di Angelo Barbato dell’Istituto Mario Negri di Milano, altro ospite della cerimonia inaugurale di Màt 2015. Barbato ha discusso in una prospettiva politica e sociologica il tema degli attori sociali del mondo della salute mentale e la partecipazione di questi in particolare ai vari processi decisionali, senza trascurare considerazioni proprie di un punto di vista specificatamente clinico ed epidemiologico.

«Occorre capire in che misura è possibile e al tempo stesso in che misura avviene realmente la partecipazione dei vari attori sociali alle decisioni nel campo della salute mentale, tenendo conto degli aspetti e degli effetti talvolta controversi di questa. E affrontando il tema in un’ottica il più possibile scevra da ogni retorica», ha commentato Barbato. «Noi parliamo di attori sociali e della loro partecipazione, ma si tratta innanzitutto di aspetti valoriali ed etici… Ci chiediamo innanzitutto: a che livello può avvenire questa loro partecipazione? I livelli sono certamente tanti, a cominciare dal contributo che la persona con disagio psichico può apportare nel dialogo contrattuale con lo psichiatra nel decidere insieme l’aspetto terapeutico, il suo stesso percorso di cura e di trattamento individuale. Accanto alle istituzioni rappresentative e politiche, si rivela fondamentale infatti la partecipazione dei portatori di interessi, ossia di familiari e utenti, sul piano dei processi decisionali, all’interno delle proprie reti sociali, formali e informali».

In altri termini, le fasce al tempo stesso marginali e protagoniste del mondo della salute mentale sono cioè chiamate, pur tra mille difficoltà e contraddizioni, a prendere parte ai meccanismi politici e a far sentire la propria voce.

«Da alcuni decenni le politiche del nostro Paese sono centrate fondamentalmente sul ceto medio. Le periferie umane e urbane non fanno parte delle politiche che vengono messe in campo. E allora inevitabilmente la sensazione è quella di una sorta di delega in bianco delle responsabilità pubbliche – che, badate bene, non è sussidarietà ma è sostituzione – a soggetti di Terzo Settore. Ai cosiddetti “buoni”, ossia coloro che non lo fanno per utilità in quanto organizzazioni del No Profit». Queste le parole Pietro Barbieri, ospite di Màt 2015 e Presidente del Forum Nazionale Terzo Settore. Parole di grande peso e significato.

«Accade allora che nelle periferie umane di questo Paese i “buoni” non sono i soggetti più forti, ma sono anzi quelli più deboli e fragili – ha proseguito Barbieri – e tutto questo lascia sul terreno solo l’idea che ci sia una mano d’opera a basso costo e motivata da poter utilizzare. Questa è la deriva di fronte alla quale ci si trova quando le politiche non tengono in considerazione lo “scarto umano”, le persone discriminate». Cosa fare allora? «C’è bisogno chiaramente di una politica diversa, che è oggettivamente andata persa. Le politiche di welfare devono assumere un’altra direzione, tornare a costruire realmente processi di partecipazione, ed è necessaria in tal senso una mobilitazione dell’intero sistema. Si continua nella penalizzazione di tutto quello che è quel mondo altro, il mondo del “diverso”. Io sento con estrema difficoltà questa stagione. Una stagione tra l’altro nella quale la crisi lascia ulteriori danni. Ulteriori forme di povertà. Ulteriori forme di disagio sociale. Abbiamo necessità di costruire o ricostruire processi di aggregrazione e di dialogo con la cittadinanza. Non è più l’epoca di Franco Basaglia, non è più l’epoca in cui la comunità si mobilita in maniera attiva: occorre uscire da questa marginalità in cui oggettivamente siamo finiti e costruire nuove opportunità».

Riflessioni pienamente condivisibili e ben in sintonia con la parola chiave dell’edizione 2015 di Màt: dignità.

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