magrittedi Silvia D’Autilia e Peppe Dell’Acqua.

“È la politica. È l’Italia”. Con queste affermazioni si chiude l’intervista rilasciata da Vittorino Andreoli a La Stampa del 21 Dicembre scorso, a proposito dei permessi d’uscita dal carcere a detenuti come Bartolomeo Gagliano.

Dopo il bombordamento mediatico immediatamente seguito, questa intervista è arrivata come a suggello dell’allarmismo sociale generato verso “pazzi pericolosi” che vengono fatti uscire dal carcere.

“Quella parola lì, ‘pericolosità’, è stata cancellata dal nostro vocabolario sociale”, dichiara Andreoli a premessa delle sue opinioni. Le cose, insomma, non vanno più come nel glorioso 1904, quando la legge del Regno d’Italia sui manicomi, “ispirata da Cesare Lombroso”, equiparava il malato di mente a colui che è pericoloso per sé e per gli altri e oggetto di pubblico scandalo.

Come a dire, gli anni d’oro sono finiti se nella Legge 180, “la parola pericolosità non è mai nominata”. E ancora: “la legge Basaglia dimentica che in alcune patologie psichiatriche uno dei sintomi principali è proprio la pericolosità”.

Cosa bisogna leggere in queste parole? L’auspicio di un ritorno alle origini, agli insegnamenti di Cesare Lombroso che sapeva guardare le persone, come oggi ancora molti psichiatri continuano a fare, per scovare cosa c’è dentro il cervello, per registrare e catalogare gli indizi del soggetto pericoloso?

Ma non si erano superati quei pregiudiziali e infondati saperi che facevano della semplice osservazione del “matto”, ictu ocoli, lo strumento di condanna a immutabili destini? Forse dobbiamo concludere che no, non si erano superati. Non si sono superati. Ma continuano. Ritornano con apparizioni più o meno durature. Con un oblio più o meno importante della filosofia che la 180 ha promulgato e non perché Basaglia fosse il detrattore numero uno della ‘pericolosità sociale’, ma perché semplicemente la pericolosità sociale non merita neanche di essere criticata. È una chimera, un qualcosa che si presume, ma che di fatto  manca. E la presenza della malattia mentale o di un suo disturbo surrogato non può affiancare quella persona alla pericolosità pubblica più di quanto non ne potrebbe essere affiancato ognuno di noi.

Dice Piero Cipriano nel suo libro “La fabbrica della cura mentale”, a sostegno di tempi e pratiche che invece non possono essere dimenticate: rispetto alla malattia mentale “l’unico dato certo è la sua fenomenologia”. Non c’è altro. Si sa che c’è. Punto. Non si conosce né la causa scatenante, né il decorso.

E non basta dire che il problema, il nocciolo duro della questione è il fatto che le carceri italiane sono “ambienti osceni”, che “non rieducano nessuno”. La rieducazione, tanto desiderata e auspicata, come potrebbe mai trovare avvio in un sistema che innanzi tutto non metta tra parentesi la cartella clinica di questi soggetti e non sospenda il giudizio sulla presupposizione della loro pericolosità?

La finalità dell’istituzione carceraria, da Beccaria a noi, è la reintegrazione che la rieducazione dovrebbe produrre in modo consequenziale. Eppure quale miraggio di reintegrazione possiamo figurarci per queste persone, in un Paese che s’indigna se gli addetti ai lavori non riconoscono per tempo la potenziale pericolosità sociale, ma non considerano minimamente che la prima mossa rieducativa è proprio quella di mettere da parte quest’inferenza vuota e illogica per cui malato di mente o autore di reato siano archetipi rigidamente connessi al concetto di pericolosità sociale?

Il vero problema allora è sempre uno: la barriera. Sociale e culturale. Tra chi è sano e chi non lo è. Tra chi è buono e chi è pericoloso. Come se per questi fratelli scomodi la massima forma di presa-in-cura sia una perizia che decida del loro ruolo nel mondo. Del loro destino. Della loro condanna.

Proprio come si sta scongiurando accada anche a proposito degli OPG: non serve cambiare nome a queste strutture o ridimensionarle, come lo stesso Andreoli riferisce di aver proposto al Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, se non ci si prefigge come banale atto di giustizia la restituzione di responsabilità e la pienezza del diritto prima di ogni altra cosa.

Ma è la politica. È l’Italia.

(A questo link l’intervista di Andreoli:

http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/andreoli_la_stampa_21.12.13 )

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