_DSC4114Di Gianluca Monacelli.

Tutti ai propri posti di manovra! Bisogna tenere ben stretta la barra del timone e puntare tutto a dritta. Mare forza 180 quasi 188. Una nuova sbandata sul fianco sinistro, arriva quasi d’improvviso sulla cultura delle buone pratiche e la lezione basagliana. In un cielo inquieto e cupo cade un’altra tegola, stavolta un macigno, sulla stagione dei diritti e  sulle buone pratiche oramai a rischio sopravvivenza.

Poco tempo fa avevo segnalato al Forum di ‘cosa rimanesse nel Lazio della lezione basagliana’ e come essa fosse a rischio di essere silenziosamente contro-riformata dentro atti legislativi amministrativi, centrali e regionali, senza alcuna Legge nazionale. (vedi l’articolo)

Ebbene in questi due mesi qualcosa di nuovo è accaduto con il nuovo decreto per il riordino della psichiatria laziale che, quasi sotto traccia, sta modificando il senso e il modo di fare ‘psichiatria’ nel mondo dei servizi della salute mentale senza considerare, se non distrattamente, il bagaglio esperienziale, formativo e culturale originario che aveva ispirato la Legge 180.

Nello specifico si tratta del decreto del Commissario ad Acta 188/2015, che è andato a  regime dal 1 luglio 2015 nella Regione Lazio in fase sperimentale per 12 mesi che prende a piene mani dall’Accordo nazionale n. 16/116/CU del 17 ottobre 2013. Un accordo che già il Forum salute mentale aveva definito inaccettabile per il ritorno prepotente delle peggiori psichiatrie e dei modelli operativi più arcaici.

Atto che esteso sul piano nazionale implicherebbe, nel lungo termine, un arretramento  culturale e pratico della salute mentale rispetto il tema della residenzialità/semiresidenzialità e della riabilitazione. Già il titolo suona inquietante: “Ridefinizione dell’offerta complessiva di posti letto nelle Case di Cura Neuropsichiatriche e valorizzazione delle nuove tariffe. Nuove disposizioni al fine di uniformare standard organizzativi e gestionali delle Strutture Residenziali e Semiresidenziali Psichiatriche”. (vedi il documento)

Il nuovo decreto sarebbe finalizzato, come si legge in cima al testo realizzato, nello sforzo di ‘un omogeneizzazione nazionale dell’offerta terapeutica dei DSM rispetto la residenzialità e un riordino dei servizi della salute mentale’.  Però, più lo si legge e più ci si chiede cosa rappresenti in realtà questo groviglio di protocolli. Personalmente mi sforzo di comprendere la logica e la buonafede di un sistema simile. Soprattutto come sia stato possibile concepire un ordinamento così ben regolato e sistematizzato di un’offerta di trattamento terapeutico basata su griglie diagnostiche specifiche e ben confezionate con percorsi navetta per favorire, per l’ennesima volta, una supposta ‘buona’ residenzialità che appare selettiva e differenziata.

Nuovamente si parla di luoghi di cura, di posti letti, di strutture residenziali riabilitative e semiresidenziali differenziati per gravità e intensità, fuori dalla logica della complessità della sofferenza della persona, della famiglia, del territorio dell’inclusione sociale. Si parla di uno specialismo di settore sulla residenzialità e semiresidenzialità a tempo!

Il testo appare costruito in perfetta logica amministrativo – organizzativa che dà sollievo perché regolamenta tutto e ci libera dal pensare.

Si apprezza lo sforzo fatto per farlo apparire quasi come un regolamento reggimentale (di stampo quasi ‘manicomiale’). Tutto va specificato, obiettivato, registrato e declinato all’identificazione del soggetto di cura con criteri d’inclusione, obiettivi a breve, medio e lungo termine, sempre per selezionare il luogo residenziale dove collocare il paziente in modo intensivo/estensivo ecc ecc.

Notizie che vanno inserite in apposite schede da far approvare alle unità valutative aziendale di costo. Tutto è delineato o delineabile dentro una logica aziendale che si dimentica delle persone e della salute, ma che tiene molto bene a mente i costi.

I percorsi di cura sono assorbiti nella moderna ed elegante nuova dizione dei piani terapeutici personalizzati (PtP, come se prima non si facessero già, pensando alla persona, al suo ambiente di vita, alla sua famiglia, alle reti di relazione e al suo tessuto sociale).

Protocolli che imbrigliano nell’aspetto delle belle forme, delle convenzioni misurabili e verificabili, il rapporto tra le persone: operatore, paziente, famiglia, risorse territoriali, impresa sociale e quant’altro.

Si assiste poi a una massiccia regolamentazione e burocratizzazione della richiesta di aiuto, declinata in consulenza, presa in cura e presa in carico che avvolge e contiene come fasce invisibili anche i servizi per la salute mentale che devono sottostare al rigore dei protocolli imposti dagli ‘esperti’ di settore per garantire i Livelli minimi di assistenza (LEA) in psichiatria.

Nelle schede per l’invio alle nuove (vecchie, nel senso che le nuove comunità terapeutiche denominate strutture residenziali terapeutico riabilitative sono all’interno delle stesse case di cura neuropsichiatriche private di sempre!) cosiddette strutture per la residenzialità e riabilitazione, ci si è preoccupati anche di far segnalare all’operatore, come una sorta di funzionario del ministero dell’interno, se il paziente abbia il giogo della misura di sicurezza o problemi con la legge. Fatto che ricorda da vicino qualcosa di simile all’annotazione sul casellario giudiziario per i pazienti internati nei manicomi.

La logica che traspare sembra completamente sganciata dallo spirito del movimento di trasformazione progressista insito nella Legge 180 e in tutto ciò che l’ha determinata.

Leggendo il 188/2015, non si può fare a meno di interrogarsi sul senso del decreto stesso: ma siamo proprio sicuri che si tratta di una politica di riordino del sistema pubblico dei servizi per la salute dei cittadini (i DSM), oppure serve a giustificare gli innumerevoli e inutili posti letto delle case private neuropsichiatriche, da ora accreditate e accreditabili domani?

Che, guarda caso, per i 2/3 sono quasi tutti a Roma e dintorni.

Perché ci si sforza d’inserire i privati dei grandi potentati nella residenzialità e nella semiresidenzialità psichiatrica (con l’apertura ai privati di attivare e gestire Centri Diurni accreditati), togliendo quasi del tutto la necessaria regia delle prassi terapeutiche riabilitative ai Centri di salute mentale?

Perché si è deciso d’investire soldi pubblici nella salute mentale dei posti letto (residenzialità) piuttosto che in forme già sperimentate di buone prassi come i CSM aperti 24h o i posti letto tenda (night hospital), per le situazioni di crisi evitando il ricorso al SPDC o alla Clinica neuropsichiatrica?

Perché non si è investito in una psichiatria di territorio (salute mentale comunitaria) con personale infermieristico (motore della territorialità buona), con tecnici della riabilitazione, educatori, assistenti sociali, psicologi e psichiatri invece che perseverare nell’inutile e dannosa enfasi sui posti letto?

A leggere bene si parla sostanzialmente di garantire ‘sotto un vestito tutto nuovo’ la vecchia e onnipresente logica di potere dei posti letto della psichiatria privata, ora accreditata, o della sedicente iperspecializzazione settoriale delle residenzialità. Inutile dire e ripetere che queste scelte consumano, sperperano, quantità crescenti di risorse che sottraggono alla rete dei servizi per la salute mentale pubblica, impedendone visione, progetto, crescita. Con il decreto 188/2015, il legislatore confessa finalmente la volontà di spalancare la porta a una ‘psichiatria privata/accreditata’ accanto a un sempre più indifeso e deprivato assetto di ‘salute mentale pubblica’.  La presenza del privato sociale e imprenditoriale può essere un fattore di ricchezza nella complessa articolazione delle risposte ai bisogni dei cittadini, sempre che sia parte di un sistema governato e progettato dai Dipartimenti di salute mentale.

A oggi, dappertutto, e in particolare in alcune regioni, il disinvestimento sui servizi è ormai drammatico e l’espansione di organizzazioni psichiatriche private (private di senso, di possibilità per le persone, di progettualità, di legami e integrazioni con i territori) invade e devasta un territorio già fragile e impoverito.

Bisognerà riappropriarsi del contenuto e del senso più ricco della “buona pratica”. Non è più possibile lasciare a un non meglio specificato ‘tavolo di esperti’ (vedi quello indicato nel decreto 188 come consulenti), la possibilità di svuotare di forza le parole che hanno avviato e sostenuto il cambiamento. Non è più possibile tacere di fronte alle mistificazioni. Questo decreto stravolge una storia e con essa il senso di una prassi che mette al centro la persona, i suoi talenti e le sue fragilità, la sua storia e le sue relazioni, i suoi bisogni e il suo desiderio di rimonta. I protocolli o le schede da riempire hanno seppellito i cittadini, le persone, i soggetti.

Riappropriamoci allora con coraggio e forza delle parole, dei contenuti e delle proposte della lezione basagliana, sottoponendole a una sorta di un marchio DOC, senza lasciarle più in uso a chi le adopera a decoro di proposte di nuova manicomialità pronte a costruire nuovi e più angusti contenitori.

Non c’è più tempo, bisogna fare tutto per aprire un fronte di discussione, di partecipazione e di contrasto. Dobbiamo immaginare e volere che la Regione Lazio nei prossimi dodici mesi stravolga questo dannosissimo decreto. Dobbiamo volere che il riordino diventi il suo contrario: un disordine creativo e trasformativo utile alle famiglie, ai pazienti, al tessuto sociale, alle economie locali nella logica di un Servizio Sanitario Nazionale e Regionale che sia Pubblico e per il cittadino.

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