Pubblichiamo un estratto del “memoriale dall’inferno” dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa (Caserta) scritto da Aldo Trivini nel 1974 e pubblicato nel libro Cronache da un manicomio criminale di Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito (Edizioni dell’asino – vedi scheda).

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Questo è il primo natale che faccio in un manicomio criminale. Pensai che forse l’avrei passato come nelle altre carceri o riformatori: un pasticcino, un pacchetto di sigarette e via, né più né meno. Ma quando venne il giorno rimasi shoccato nel vedere che anche nel giorno di Natale eravamo considerati proprio delle bestie. Questo fu l’andamento della giornata: al mattino dopo la sveglia fu distribuito il latte, fummo di nuovo messi in cella, con la scusa che non c’erano le guardie. Ci dissero che quando fossero venute ci avrebbero mandato in cortile. Passarono le 9, le 10, fino all’ora di pranzo. Le guardie non vennero, almeno per noi, giacché portarono da bere al loro collega (che non faceva altro che bere) se ne videro almeno 4; ma portati pasticcini e spumante al loro collega che ci sorvegliava, andarono di nuovo via. Quando venne l’ora di pranzo ci aprirono, ma solo per ricevere la pasta asciutta e un pezzettino di baccalà, dopo di che fummo rinchiusi di dentro, fino alle 5, l’ora in cui ci fecero vedere la TV dei ragazzi; poi dopo mezz’ora, di nuovo dentro (ma durante la TV ne approfittarono per distribuire la brodaglia), fino al mattino successivo.

Ebbi una crisi nervosa da venirmi i pensieri più neri. Per esempio: alzavo la testa dal letto e mi mettevo a guardare gli altri che dormivano; mi confrontavo a loro per domandarmi se anch’io fossi come loro. Ricordo che cercai di “periziarmi” da me stesso mettendo delle cose dentro un asciugamano, di odorarle e vedere se riuscivo a distinguere un odore dall’altro, oppure di contare da uno a venti o da 20 a =, cioè all’indietro, ma anche se riuscivo nelle prove che mi proponevo non mi tranquillizzavano, tanto che ebbi a un certo punto la certezza che ero anch’io un folle e che non lo volevo riconoscere. Che nottata! Due giorni dopo, mentre ero a letto, sentii la guardia che diceva di mettere tutte le cose sul letto e di scendere in cortile.

Quando fummo scesi mi accorsi che eravamo tutti e 400. Mi avvicinai al “partigiano” per chiedergli che cosa era successo e lui mi disse che a Napoli era scoppiato il colera e che ora ci avrebbero fatto la puntura a tutti quanti. Di fatto, poco dopo arrivarono 2 detenuti dal padiglione infermeria (due raccomandati) ed un infermiere. I detenuti avevano delle fasce in mano, e l’infermiere un ago attaccato al colletto della giacca; con questo unico ago, mentre i detenuti ci pulivano il punto, l’infermiere ci fece l’iniezione, disinfettando con del cotone imbevuto di spirito, di tanto in tanto. Io fui uno dei primi e feci male perché man mano che i detenuti venivano vaccinati, venivano mandati di sopra a strusciare i pavimenti con un forte deodorante che gli faceva lacrimare gli occhi. Dagli altri reparti, in questo erano venuti altri detenuti con dei grossi cannelli e bombole di gas, damigiane piene di liquido bianco e due grosse vasche di plastica e centinaia di contenitori da mezzo litro di acido muriatico. Le vasche furono messe dentro i gabinetti e riempite con il liquido delle damigiane; i contenitori di acido venivano svuotati lungo gli angoli e i lati bassi dei muri del corridoio e delle stanze ma prima le stanze venivano inondate dalle fiamme dei lanciagas: soffitti, pareti, finestre, un vero inferno. Il lavoro procedeva andando stanza per stanza, braccio per braccio. Arrivati nei cameroni dei paralitici, questi venivano presi a braccia e adagiati in un’altra stanza per terra, uno vicino all’altro, così come li avevano prelevati, mezzi nudi e tremanti dal freddo; quasi tutte persone anziane. Poi procedettero allo sgombero delle cose: i comodini venivano messi dentro le vasche per 5 minuti, così pure i buglioli. La maggior parte delle cose loro, tenute dentro le scatole, furono tranciate. Anche qui tutto fu tranciato dalle fiamme; furono cambiati i materassi, le coperte, le reti dei letti, le crepe sui soffitti furono murate. Poi man mano che le stanze venivano disinfettate con dei cannelli, venivano di nuovo imbiancate.

Dalle vasche i comodini uscivano (senza) colori, così pure i buglioli; molti comodini bisognava tirarli su pezzo a pezzo, giacché non ce la facevano a resistere; tanti dovettero essere bruciati perché il disinfettante non li puliva, perché avevano molte firme di militari e stemmi di quando appartenevano ai militari. Nel pomeriggio alcuni furgoni vennero a prendere i materassi e le coperte per poi esser bruciati. Molte cose personali dei detenuti furono caricate insieme alle coperte per il fatto che le scatole che le contenevano erano sporche. Ricordo uno, che per la rabbia, sbattè la testa contro il muro, perché la guardia aveva preso il suo scatolone buttandolo sul camion. Costui aveva nella scatola circa 400 pacchetti di sigarette che era riuscito ad accumulare in 25 anni di lavoro come barbiere, a 3.500 lire al mese. Però la maggior parte della roba veniva buttata su consiglio del capo stanza e questi un po’ per deficienza un po’ per vendetta quello che prendeva buttava e inventava delle scuse assurde per aver ragione. Il mio capo stanza, per esempio, disse alla guardia di prendere anche la mia macchinetta del caffè perché non l’adoperavo mai e non aveva visto che la lavavo. Dopo le stanze fu la volta dei sotterranei: tonnellate e tonnellate di scarpe ammuffite, di materassi di crine, di coperte furono portate via dai furgoni, la melma fu levata con le pale. Dopo che i locali furono svuotati si allagarono con litri e litri di disinfettante. Nel frattempo, squadre di operai toglievano i vecchi e settecenteschi gabinetti mettendo al loro posto i nuovi. Al posto di una doccia ne sortirono fuori altre 6; sui muri comparvero le maioliche, dai tetti e dalle finestre sparirono gli arbusti secchi e verdi; i buchi furono otturati. Tutto diventò bianco. Dalla scuola fu rimosso il ritratto di PIO X e di Vittorio Emanuele e al loro posto vennero messi Leone e Paolo VI.

Dai banchi sbucarono i topi che vi avevano fatto il nido e dopo che tutto fu sistemato venne di nuovo chiusa. Il muro di cinta interno, con il passaggio della corrente ad alta tensione, fu abbattuto e al loro posto vennero messe le reti a cancellata. Squadre di operai con le scavatrici presero a scavare e a rimuovere i terreni rialzati; lungo le basi dell’edificio portarono alla luce ogni sorta di oggetti, tra i quali alcune divise militari vecchie, ancora riconoscibili scarpe e stivali, pezzi di mobilio, ecc. Gli arbusti dei tetti e delle finestre furono bruciati. Insomma in due giorni tutto cambiò. Siccome queste cose furono fatte contemporaneamente, compreso il cambiamento dei gabinetti, non si sapeva dove andare a fare i bisogni. Allora misero in una stanza parecchi buglioli e lì dovevamo andare, ma benché i buglioli venissero svuotati dentro dei grossi bidoni, da quella stanza si usciva impastati fino ai capelli. Chi nel bugliolo, chi per terra, ognuno, cercava di sfogarsi come poteva.

Ora c’era il fatto che dopo la puntura quasi tutti avevano la diarrea e quelli incapaci si liberavano dove si trovavano: nei corridoi, nelle stanze e nei cortili. Era facilissi- mo, camminando, di sporcarsi. Le guardie si raccomandavano di andare nel gabinetto del cortile prima che finisse l’aria, ma anche lì c’era il caos e siccome mancava l’acqua, le feci uscivano dall’aria del gabinetto. Peggio per coloro che non potevano alzarsi dal letto. Io stesso vidi che uno di loro levava le feci con le mani dal letto e le buttava per terra; se poi andavano a finire ad un letto vicino era lo stesso. Ma il guaio peggiore era che dovendosi pulire si sporcavano anche addosso ed in tutte le parti dove appoggiava le mani. Costoro venivano puliti una volta al giorno, “se c’era tempo e se si ricordavano”. Per quelli che subivano la pulizia era un vero supplizio: venivano portati in una stanza, messi per terra e venivano puliti con un getto d’acqua mentre gli scopini colle scope facevano il resto. Per 3 o 4 giorni i corridoi vennero allagati da un forte disinfettante tanto che lacrimavamo.

IL DOPO COLERA

Quando sembrò tutto finito, cominciarono i nuovi guai. I gabinetti dopo una settimana si scolorirono, da bianchi diventano neri e gialli, se ne staccavano pezzi che vanno a finire nei bracieri (aggiunto a mano, ndr) le fognature s’intoppano di nuovo, le maioliche si staccano dai muri, i contenitori di acqua e gabinetti non funzionano, alle docce viene levata la chiave, le vasche vengono usate per lavare gli stracci, i buglioli e i rubinetti chiusi 2 su 3, i soffitti rifanno acqua, le crepe dei muri ritornano, gli intonaci si ristaccano, ricompare il muschio negli angoli, le cimici, i ragni, i topi sono padroni del campo, le lenzuola sono di nuovo nere, le scarpe si rompono e non vengono più cambiate, le mattonelle si staccano dal pavimento, alcuni lavabi si staccano, l’acqua viene di nuovo razionata. Praticamente tutto ritorna come prima. Ora ritornando al fatto del morto, non so se fu colpito da colera e se tutto questo sia stato fatto per la paura di un controllo da parte della sanità, ma una cosa è certa di tutto quello che è accaduto e che potrà accadere ad Aversa nessuno sa o saprà mai le ragioni. Gli omicidi bianchi, i soprusi, le violenze e tutto ciò che fa parte della brutalità sono cose che di Aversa fanno parte, anzi sono l’essenza stessa di un manicomio criminale. Gli abitanti di questo luogo di orrori sono vittime proprio perché anche essi hanno trasgredito tale codice quando erano liberi cittadini. Ma un fatto è certo se trasgredirono la legge, lo fecero per ignoranza, per la miseria, per la sofferenza, mentre coloro che oggi trasgrediscono le leggi contro di loro lo fanno per arricchirsi e per i loro schifosi interessi, senza che per esse, però, vengano applicate le stesse punizioni.

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