di Luigi Benevelli.

Purtroppo il 7 aprile non potrò essere presente all’incontro alla camera dei Deputati. Per questa ragione ho steso le brevi note che seguono.

Una costante storica dell’esercizio del diritto alla salute mentale in Italia è il tratto a macchia di leopardo delle esperienze e delle culture professionali. Di qui la necessità sentita da molti di noi che la qualità dell’accoglienza e dei trattamenti dei pazienti con diagnosi psichiatrica ridiventi questione nazionale, conquisti l’attenzione e il rispetto della politica e delle istituzioni. Ma come?

L’assetto del servizio sanitario nazionale tuttora in vigore conferisce alla psichiatria un mandato rigorosamente sanitario: prevenire, curare, riabilitare. Ma esiste, eccome !!, un mandato implicito, inespresso, ma sempre pesantemente operante, che, come ricordava il compianto Ferruccio Giacanelli, attiene piuttosto ai meccanismi del controllo sociale.

Da subito, sin dalla sua approvazione, si è discusso e lavorato intorno alla approvazione di modifiche alla 180/78 con l’intenzione soprattutto di reintrodurre nella legislazione sanitaria italiana il paradigma della pericolosità sociale del folle. Chi, invece, puntava alla attuazione della legge di riforma su tutto il territorio, regione per regione, ha lavorato per l’adozione dei progetti-obiettivo nazionali, il primo 1994-96, il secondo 1998-2000. Da più di quindici anni, quindi, il sistema italiano dei servizi per la salute mentale è privo di riferimenti operativi e gestionali aggiornati. Negli anni più recenti è stata la scelta di chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari a costituire l’unico elemento di novità e di sfida agli assetti assistenziali e alle culture professionali degli operatori. E qui grandi sono la fatica e gli impacci con i quali si sta procedendo alla costruzione di servizi di salute mentale degni di questo nome nelle istituzioni penitenziarie.

Intanto gli operatori tutti (medici, infermieri, assistenti sociali, educatori professionali, riabilitatori, OSS, ASA) continuano ad essere per lo più abbandonati a se stessi dalle Università, dal circuito della formazione professionale delle Regioni titolari della partita e le culture professionali sono andate orientandosi sempre più verso una sanitarizzazione a oltranza della psichiatria.

A tutto questo si aggiungano le difficoltà che affliggono il finanziamento del servizio sanitario nazionale nel suo complesso e gli effetti di distorsione dell’articolazione del servizio sanitario nazionale, Regione per Regione, che hanno portato alla costituzione di Aziende sanitarie di grandi dimensioni sovra provinciali ( si pensi alle aree metropolitane!), nelle quali  la dimensione, la voce, la responsabilità della “rappresentanza politica” delle comunità locali finiscono con lo sparire in nome dell’efficienza e del controllo delle gestioni aziendali sempre più centralizzato. E questo è negazione dell’approccio “ecologico” alla promozione della salute.

Le difficoltà in cui si dibattono i Dipartimenti di salute mentale vanno iscritte quindi dentro una crisi profonda dell’insieme e dell’idea stessa del servizio sanitario nazionale voluto dalla legge 833/78. Credo si debba tenerne conto e averne rispetto.

Per questo non mi convincono le spinte a ritenere che una via d’uscita in positivo per la psichiatria possa essere rappresentata dall’approvazione di una “legge speciale” che faccia dei Dsm organizzazioni autonome, tendenzialmente autosufficienti, meglio se separate dal resto dei servizi sanitari, sociali, assistenziali.

A differenza delle legislature precedenti, le Camere non hanno lavorato nella XVII legislatura in corso sui temi della salute mentale, se si eccettua l’attenzione alla chiusura degli opg. Prima della p.d.l. 2233 a prima firma Casati, è stata presentata una pdl a sostegno del t.s.o. nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare (DCA). Le Camere hanno poi di recente approvato una legge per i disturbi dello spettro autistico.

L’incontro romano del 7 aprile prossimo costituisce in ogni caso un segno positivo, tanto più importante perché appare un impegno diretto del gruppo di maggioranza relativa del Pd che ha fatto propria la cosiddetta “181”. La “181” è insieme una proposta di “legge speciale”per la psichiatria, che viene “stralciata” dal servizio sanitario nazionale, e una modifica della 833/78. La mia opinione è che non siano ammissibili ingenuità al riguardo perché una delle grandi conquiste delle riforme del ’78 è stata l’integrazione del governo e dell’esercizio del lavoro per la salute mentale nel complesso delle attività di prevenzione, cura e riabilitazione del servizio sanitario nazionale.

Anche prendendo atto in positivo di alcuni aspetti di un “nuovo inizio”, c’è da chiedersi e da chiedere se il gruppo del Pd sia impegnato a “chiudere” l’iter entro la fine della legislatura. Se fosse così, vorrebbe dire che la questione “salute mentale” è ritenuta, anche da parte presumibilmente del Presidente del Consiglio, capace di attirare e moltiplicare consensi. Con tutte le conseguenze del caso in ordine al “merito” delle “innovazioni” e alle maggioranze (quali?) che le dovrebbero approvare. Una volta avviato il meccanismo della messa all’ordine del giorno delle modifiche/integrazioni del testo della legge 833/78, arriveranno altre proposte di legge, si dovrà redigere un testo da portare in aula e chi ha i voti vince. Ma quale sarà il testo che uscirà e da chi sarà approvato, dato che il Pd, che comunque ha marcate differenze al suo interno, non ha la maggioranza assoluta? E cosa diranno i “sondaggi di opinione” che hanno sostituito le analisi scientifiche nel confezionamento delle scelte?

Io resto dell’idea che sarebbe utile non sprecare una occasione per lavorare intorno a un nuovo progetto obiettivo nazionale, per una salute mentale che riguardi tutti gli abitanti della penisola, immigrati, internati e detenuti compresi. Ci servirà a capire come rispondono le Regioni, a dare voce e riconoscimento agli utenti dei servizi e alle loro famiglie, a ridare voce a tutti gli operatori dei servizi, alle loro organizzazioni professionali e sindacali, che da troppi anni tacciono.  Per questo credo che sarebbe utile lavorare sull’istituzione della Consulta nazionale presso il Ministero della Salute.

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