Roma, novembre 2000

Sintesi e raccomandazioni

La tutela del diritto alla salute – il quale in Italia assurge a diritto costituzionale e che deve essere inteso comprensivo della salute mentale -, implica, dal punto di vista bioetico, una preliminare riflessione sulla definizione stessa di equo trattamento e accesso alle cure alla luce dei principi della dignità dell’uomo. Tuttavia, definire (o ridefinire) i criteri per un equo trattamento dei pazienti psichiatrici richiede, a sua volta, il riferimento ad un approccio complesso che sappia contemperare il rispetto dei diritti del paziente con la sicurezza della società. Mentre il riferimento a tali diritti pone la questione su di un piano strettamente normativo, la comprensione del contesto da cui questi traggono origine può giovarsi di principi etici fondamentali e di ampio respiro quali il principio di giustizia (inteso come obbligo per il medico, per lo psicologo clinico e per gli altri operatori qualificati, di tener conto delle conseguenze sociali su terzi di ogni intervento sanitario e di conciliare il bene del singolo con il bene collettivo evitando ogni squilibrio e rispettando l’equità nella distribuzione delle risorse e dei servizi), il principio di beneficialità (inteso come dovere per il medico, per lo psicologo clinico e per gli altri operatori qualificati, di promuovere il bene del malato, tutelandone la vita e la salute anche nell’ambito della prevenzione), il principio di autonomia (inteso come dovere per il medico, per lo psicologo clinico e per gli altri operatori qualificati, di rispettare la libera e responsabile volontà del malato, il quale è detentore del diritto all’informazione diagnostico-terapeutica e all’espressione del consenso sino alla potestà del rifiuto).

Va osservata, in linea generale, una radicale modificazione del paradigma culturale del rapporto medico-paziente. Si vanno sostituendo e affiancando al modello tradizionale basato esclusivamente sul principio di beneficialità, quello basato prevalentemente sul principio di autonomia, rivendicando così il primato dell’autodeterminazione della persona in caso di malattia e di una alleanza terapeutica che comprende, oltre alle cure, anche il prendersi cura del malato. Non può essere sottovalutata, tuttavia, la natura asimmetrica del contratto e il carattere solo giuridico ed etico della parità dei contraenti in riferimento ai diritti personali, ferma restando comunque un’incolmabile disparità di competenze conoscitive. Se è innegabile infatti che una subordinazione oggettivante del malato è eticamente inaccettabile in quanto lesiva della dignità umana, ciò non legittima un rovesciamento della relazione, sotto pena non solo di una discutibile sottovalutazione del patrimonio scientifico-professionale ma anche del nocumento all’interesse oggettivo prioritario della tutela della vita e della salute. Il principio delle garanzie è quindi un essenziale punto di riferimento dell’etica medica contemporanea.

La tutela della soggettività del malato assume, quindi, nel quadro dell’etica medica contemporanea, un valore paradigmatico in quanto è condizione indispensabile per la costruzione e lo sviluppo della libertà, la quale va intesa essenzialmente come processo di liberazione che ha origine da un’esigenza etica fondamentale della persona. La tutela della soggettività del malato mentale ha pertanto una connotazione etica in quanto è educazione al sentirsi e al voler essere liberi e quindi promozione della libertà autentica. Un concetto di libertà così inteso risulta strettamente connesso al principio di autonomia, che è riferito al rispetto assoluto della persona. Ma ad evitare equivoci pericolosi va precisato che la tutela della soggettività del malato non consiste nel credere che egli sia libero (contro l’evidenza dei condizionamenti patologici di natura cognitiva e o affettiva) bensì nell’aiutarlo a divenire libero.

Essa è finalizzata al ripristino della comunicazione, compromessa o interrotta dal disturbo mentale, e rende pertanto possibile l’ascolto. Aldilà delle modalità diagnostico-cliniche dell’anamnesi, infatti, l’ascoltare e il saper ascoltare ha anche un elevato valore etico in quanto è assunzione e riconoscimento del malato non come altro da me ma come un altro io che dà significato al rapportarsi con lui e quindi a me stesso. Il valore etico dell’ascolto consiste pertanto in una scelta di auto limitazione che lo psichiatra, lo psicologo clinico e gli altri operatori qualificati, compiono espellendo la ricorrente tentazione del narcisismo e del sentimento di onnipotenza per collocarsi nella dimensione dell’incontro.

Per quanto concerne, infine, la complessa questione dei limiti intrinseci al consenso informato dei pazienti psichiatrici è necessario in primo luogo chiarire la natura graduale e mutevole della capacità/incapacità di intendere e volere. Anche nel caso della schizofrenia va tenuto presente che il percorso è estremamente vario e differenziato: tra i due estremi della cronicizzazione con grave deterioramento cognitivo e rilevante disabilità da una parte, e l’acquisizione di un accettabile condizione di salute dall’altra, vi è una vasta gamma di sfumature ove si alternano fasi di aggravamento e fasi di remissione, o un grado accettabile di stabilizzazione ben controllata. Tutto ciò comporta una radicale critica di due orientamenti estremi: l’uno volto ad escludere sempre e comunque la capacità del malato mentale a recepire correttamente l’informazione e ad esprimere un valido consenso; l’altro connotato dall’ingenuo ottimismo in senso opposto. In realtà va innanzitutto osservato che tra l’assoluta incapacità di intendere e di volere, propria della demenza, e la “normalità” vi sono una serie di gradi intermedi, dove deficit cognitivi e alterazioni affettive possono determinarne diminuzioni ma non l’assenza. Ciò non legittima comunque la rinuncia all’informazione ma comporta il criterio etico (ma anche clinico) della cautela nel vagliare caso per caso se, come, quando, fornire l’informazione e, soprattutto, una scelta puntuale delle modalità e della misura adatta al singolo paziente in riferimento alla sua situazione e al suo contesto bio-psico-sociale ed esistenziale. A questo proposito ai fini di una conciliazione tra principio di beneficialità e principio di autonomia, evitando deragliamenti ed ingenuità, è fondamentale il criterio per cui «informare è prima di tutto comunicare all’interno della relazione».

Tali criteri e orientamenti etici devono essere considerati, nella misura in cui è possibile trovare corrispondenze tra il piano etico e quello più strettamente normativo, alla luce di alcuni diritti umani fondamentali. Va sottolineato, infatti, che alle persone affette da disturbo/disagio mentale/affettivo devono essere assicurati i diritti di tutti gli altri membri della comunità, anche indipendentemente dalla concreta possibilità di esercitarli. La particolare vulnerabilità di tali soggetti richiede infatti che sia rafforzato per essi il riconoscimento di una piena cittadinanza il quale deve essere concretamente difeso e promosso in primo luogo attraverso il rispetto di alcuni diritti e/o l’adempimento di alcuni doveri fondamentali, quali ad esempio:

  • diritto a un trattamento privo di coercizioni e rispettoso della dignità umana con accesso alle più opportune tecniche di intervento medico, psicologico, etico e sociale;
  • diritto a che venga eliminata ogni forma di discriminazione (sessuale, culturale, religiosa, politica, economica, sociale, etnica) nelle modalità di trattamento, anche quando limitative della libertà;
  • diritto a non subire nessuna forma di abuso fisico e/o psichico;
  • diritto alla riservatezza;
  • diritto alla protezione delle proprietà personali;
  • dovere di tutela dalle conseguenze di forme di autodistruttività (autoaccuse, dichiarazioni di indegnità, etc.) nei confronti della famiglia, dei datori di lavoro, dell’autorità giudiziaria;
  • dovere di realizzare condizioni ottimali di degenza e di comunicazione con l’esterno nei luoghi di ricovero;
  • dovere di difendere la genitorialità, da attuarsi nel pieno rispetto del preminente interesse dei minori. A tal fine è necessario un bilanciamento tra il dovere di beneficialità nei confronti dei pazienti e l’interesse del minore ad una crescita sana ed equilibrata.

Per quanto concerne invece più specificatamente la questione dell’assistenza ai pazienti psichiatrici in Italia, è opportuna una considerazione di carattere generale sulla legge n. 180 del 1978, poi trasferita negli art.33, 34 e 35 del SSN. La legge n. 180 rappresenta certamente una conquista scientifica, culturale e civile, in quanto ponendo fine all’istituzione manicomiale e aprendo nuove strade all’organizzazione di un sistema di assistenza sanitaria senza manicomi, ha costruito le condizioni per restituire piena cittadinanza ai pazienti psichiatrici. Il modello italiano, patrocinato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha influenzato le politiche di salute mentale in molti altri paesi, tese a sostituire i manicomi con forme di assistenza territoriali più efficaci ed efficienti. Tuttavia, a distanza di oltre venti anni dalla sua entrata in vigore, è quanto mai necessaria una seria riflessione sulla sua concreta applicazione, al di là del pur importante completamento della chiusura degli Ospedali Psichiatrici. Tale chiusura, infatti, a causa dell’assenza o del cattivo funzionamento delle strutture alternative, come per es. i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura negli ospedali (quali strutture intermedie tra territorio e ospedali), rischia di produrre nuovi problemi, in primo luogo sulla salute del singolo, ma anche sull’equilibrio, sull’economia e sulla stessa salute della famiglia, a cui rimane il maggior onere, spesso insopportabile, di sostegno del congiunto sofferente. Infatti nei casi in cui i servizi non sono in grado di fornire programmi terapeutico-riabilitativi territoriali realmente efficaci, con un profondo impegno verso il paziente, le famiglie restano i referenti principali dell’assistenza, e ciò dà luogo spesso all’abbandono o anche all’innesco di reazioni violente, che sono talvolta all’origine di gravi fatti di cronaca. Simili fenomeni riattivano mai sopiti pregiudizi sulla malattia mentale e stigmatizzazioni del paziente psichiatrico, che si prestano a facili strumentalizzazioni, tese a far crescere nell’opinione pubblica e nel mondo politico il disagio per la “pericolosità sociale” del malato di mente e la conseguente richiesta di un suo maggiore controllo, che ancora una volta potrebbe essere attuato in modo coercitivo, e quindi non terapeutico e rispettoso dei suoi diritti.

Da un simile quadro emergono alcune questioni di fondamentale importanza che chiamano in causa direttamente la responsabilità delle istituzioni nell’applicazione della legge n. 180. Tali aspetti riguardano in particolare:

  • la migliore formazione degli operatori psicosociali e dei medici di base;
  • la creazione di strutture riabilitative a diversi livelli di protezione;
  • una maggiore attenzione per l’assistenza psichiatrica dei minori, in particolare per il disagio mentale che si evidenzia in adolescenza;
  • la creazione di strutture riabilitative per i minori;
  • un maggiore intervento nella prevenzione e nella diagnosi precoce;
  • la presa in carico di malati gravi che rifiutano sia le cure mediche che quelle psichiatriche e sono a rischio di comportamento violento;
  • l’informazione e discussione pubblica per la lotta al pregiudizio verso il malato mentale.

A tal proposito si raccomanda l’applicazione del Progetto obiettivo “Tutela della salute mentale” 1998-2000. Si tratta infatti di un provvedimento che se realmente applicato può contribuire a risolvere molti dei problemi dell’assistenza psichiatrica ed aumenta il livello di efficacia e qualità dei servizi, fornendo un contributo decisivo per lo sviluppo di quel “laboratorio italiano” che nel campo della salute mentale ha destato, in molti paesi, vasto apprezzamento e interesse. Più in particolare, il Progetto obiettivo salute mentale 1998- 2000 ha il merito di avere affrontato in modo corretto la questione della prevenzione nei gruppi a rischio sia riguardo alla malattia mentale che ai suoi possibili esiti suicidari, sia all’educazione alla salute mentale, sia all’intervento precoce. Per quanto concerne in particolare la salute mentale del bambino, merito del Progetto obiettivo è quello di avere riconosciuto la continuità evolutiva dell’individuo dall’infanzia all’età adulta, pur essendo carente di una previsione esplicita di interventi per pazienti adolescenti. Va inoltre osservato che è assente una chiara distinzione tra le aree della psichiatria, della psicologia, della neuropsicologia e della riabilitazione soprattutto in riferimento alla differenza di obiettivi, metodi e organizzazione degli interventi, con ricadute negative nell’assistenza anche in ambito psichiatrico. Si sottolinea infine positivamente la delineazione di un patto per la salute volto a coordinare ed integrare le agenzie formali ed informali che, a vario titolo, possono contribuire a costruire un progetto di salute mentale di comunità. Il Progetto obiettivo prevede inoltre che l’Istituto Superiore di Sanità promuova ricerche volte a valutare l’efficacia degli interventi di prevenzione primaria. Esso prevede infine che gli Istituti Universitari di psichiatria assumano la responsabilità operativa di almeno un modulo di Dipartimento di Salute Mentale, cioè la responsabilità di tutte le strutture territoriali e ospedaliere necessarie ai servizi di salute mentale di una comunità di circa 150.000 abitanti. Tale disposizione è l’unica che garantisca una formazione qualificata degli operatori in psichiatria e che possa collegare la ricerca attivata nel campo osservazionale fornito dal territorio alle prove dell’efficacia pratica degli interventi. Tale acquisizioni, per la loro oggettiva importanza, sono destinate nei prossimi anni a cambiare il volto dell’assistenza psichiatrica.

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