di Veronica Rossi
19 dicembre 2022
da “Vita”

Nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia, patria della rivoluzione psichiatrica che ha portato al superamento dei manicomi, diverse voci di medici, pazienti, familiari e cittadini si stanno alzando per denunciare un cambiamento nella presa in carico di chi ha disagi mentali, che starebbe tornando verso una visione più medicalizzante e meno aperta al territorio

Se c’è un simbolo della rivoluzione che Franco Basaglia ha portato nella psichiatria, è sicuramente Marco Cavallo, la grande statua blu che ha sfondato le mura del manicomio di San Giovanni a Trieste. Lo psichiatra Peppe dell’Acqua lo definisce «uno storico del presente», da cinquant’anni in prima linea nelle battaglie per i diritti e la democrazia. Oggi, Marco Cavallo è, per Paolo Polidori, il sindaco leghista di Muggia – la cittadina giuliana in cui aveva la sua “stalla” –, un ingombro da rimuovere. È così, questo illustre testimone del processo di deistituzionalizzazione è sotto sfratto. Ma, secondo cittadini e rappresentanti del mondo basagliano, a essere un ingombro di questi tempi è anche ciò che il cavallo rappresenta: un approccio democratico e aperto alla salute mentale, incentrato sull’attenzione e la cura dei bisogni – non solo medici – delle persone più fragili.

Il capoluogo del Friuli Venezia Giulia, infatti, è conosciuto in tutto il mondo per essere l’epicentro del grande scossone nella psichiatria che ha portato alla nascita della legge 180 e all’inizio del percorso di chiusura dei manicomi, continuato nel 1997 dall’allora ministra Rosy Bindi.

Il Dipartimento di Salute mentale di Trieste è un’eccellenza riconosciuta anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che già nel 1975 lo indicava come esperienza pilota della deistituzionalizzazione e di cui è diventato nel 1987 Centro Collaboratore. Oggi, tuttavia, molti allievi di Basaglia denunciano il rischio di una brusca virata nelle modalità di presa in carico e di gestione dei disturbi psichiatrici nell’Azienda sanitaria universitaria giuliano – isontina (Asugi). «Fino al 2018 e all’arrivo della Giunta Fedriga il sistema triestino era ben organizzato e, a nostro parere, funzionava», afferma lo psichiatra Franco Rotelli, uno dei principali attori della deistituzionalizzazione, già direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste. «C’erano quattro distretti ben funzionanti, con servizi di prossimità e di supporto alle fragilità e ai cittadini in generale. Tutto questo è stato attaccato fin da principio, per motivi ideologici». Del resto, non è un mistero che nel 2019, durante una conferenza sulla Salute mentale nei pressi di Udine, Riccardo Riccardi, vicegovernatore e assessore alla Sanità del Friuli Venezia Giulia, abbia detto che l’attualità e l’adeguatezza dell’organizzazione basagliana vadano verificate, nell’interesse dei pazienti e dei loro familiari.

«Il sistema triestino è, dopo tanti anni, ancora all’avanguardia», afferma Claudio Cossi, presidente dell’associazione A.Fa.So.P. NoiInsieme Onlus, che riunisce familiari di pazienti con problemi di salute mentale. «La persona che ricopriva prima di me il ruolo di presidente, per esempio, si era trasferita da Roma per curare il figlio. Ora ha dovuto tornare nella sua città, l’ho sentito da poco, mi ha detto che da loro non ci si può presentare al Centro di salute mentale (Csm) dicendo di star male, bisogna prenotare una visita, che di solito viene fissata dopo almeno 20 giorni e l’esito è spesso solamente la prescrizione di farmaci». Lo spettro di un modello medicalizzante, però, sembra aleggiare anche su Trieste. «Quando una quindicina di anni fa mio figlio è stato ricoverato in uno dei quattro Csm della città, quello di via Gambini, è stato trattato coi farmaci, ma dopo dieci giorni è iniziato un percorso di sostegno molto articolato. L’hanno persino aiutato a recuperare degli anni scolastici che aveva perso; si era creata un rapporto di fiducia», continua Cossi. «Oggi gli operatori sono sempre più stremati e meno disponibili. Qualche tempo fa siamo tornati a via Gambini per un appuntamento: c’era una lunga fila per il ritiro dei medicinali, all’esterno. Una volta, quando andavi a prendere i farmaci, ti potevi fermare a parlare, a prendere un caffè. Le relazioni erano una parte centrale della presa in carico». Sembra sia venuta a mancare parte della formazione specialistica per il personale, che si fa sempre più esiguo. Le sostituzioni dei dottori – non solo nell’ambito della salute mentale – non sempre sono tempestive e i concorsi a volte si fanno attendere a lungo. Per un preciso disegno politico, sostengono i basagliani. «Vengono bloccate le assunzioni, incoraggiate le pensioni e ridotto il personale», chiosa Rotelli, «Gli operatori sono demotivati, c’è una riduzione sostanziale dei servizi domiciliari e sanitari». Pierfranco Trincas, nuovo direttore del Dipartimento di Salute mentale e del Csm di Barcola, è di diverso avviso. «La carenza di medici è un problema che attanaglia tutta la Penisola: credo che il numero chiuso all’Università non sia stato utile», dice. «Le persone che si presentano ai concorsi sono poche. Non credo ci siano intenti di andare verso una privatizzazione, come dicono alcuni: semplicemente non c’è disponibilità di operatori». La sua opinione, però, non è condivisa da alcune persone vicine al mondo della deistituzionalizzazione, che hanno delle riserve anche sulla nomina dello psichiatra cagliaritano. L’orale del concorso – con cui il candidato è passato dalla terzultima alla prima posizione – sarebbe stato fatto a porte chiuse, sostengono. Il medico, ormai sessantasettenne, lavorava in precedenza nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura del SS. Trinità di Cagliari. «All’inizio ci sono state delle polemiche perché vengo da fuori Regione e sono stato additato come una persona lontana dal modello basagliano», dice il medico, «ma ora chi collabora con me a Barcola, i pazienti e i familiari hanno riconosciuto il mio impegno: l’esperienza triestina è bellissima e intendo continuarla. Avrei potuto andare in pensione lo scorso agosto, ma ho deciso di rimanere, perché credo fortemente nel mio lavoro».

A spaventare particolarmente le persone con malattie psichiatriche e i loro parenti sono le riduzioni negli orari e nella funzionalità dei quattro Centri di salute mentale, prima attivi 24 ore su 24. Con il Covid-19, infatti, due delle strutture, via Gambini e Barcola, hanno subito un dimezzamento dell’apertura, passata a 12 ore al giorno. «La riduzione dei servizi in due strutture su quattro ha causato non pochi problemi ai pazienti e ai familiari», commenta Cossi. «Ora Barcola ha ripreso la piena funzionalità, mentre via Gambini no». In quest’ultimo centro», spiega Trincas, «devono essere fatti dei lavori per la messa in sicurezza e quindi l’edificio non sarà fruibile per qualche mese e le attività saranno trasferite in una struttura vicina». A turno, i lavori toccheranno anche agli altri Csm. «Speriamo di poter trovare per tutti delle sedi temporanee», si augura il primario, «per continuare a garantire l’importante servizio territoriale dei centri». Per chi soffre di una malattia mentale, sicuramente queste chiusure sono preoccupanti. Ma a spaventare ancora di più è quanto si è appreso a fine 2021 dalla prima bozza del nuovo atto aziendale di Asugi, al momento bloccato, dopo le proteste che hanno attraversato la Venezia Giulia. I distretti sanitari di Trieste, che ora sono quattro, dovrebbero ridursi della metà. La stessa sorte avrebbe dovuto toccare ai Csm; quest’ultimo pericolo, tuttavia, sembra scampato. Una piccola vittoria, arrivata dopo una grande mobilitazione a difesa della salute mentale da parte della cittadinanza. Alla fine dell’anno scorso è stata anche consegnata al presidente del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga una lettera sottoscritta da 2.433 persone, in cui viene rappresentata la situazione di grave indebolimento dei servizi territoriali per i disturbi psichiatrici in Regione. Sempre secondo il nuovo atto aziendale, i dipartimenti delle dipendenze e quello della salute mentale, verrebbero inglobati. «Si tratta di una decisione in linea con quello che succede nel resto d’Italia», commenta Trincas.

«Si va verso un accentramento, mentre la pandemia ci ha insegnato che la scelta migliore è territorializzare», afferma Dell’Acqua. «È in atto una disarticolazione della sanità pubblica, che a Trieste abbiamo costruito con 50 anni di attenzione al paziente, di personalizzazione e di contatto umano, che potrebbe andare in pasto ai privati». La nota di fondo del sistema basagliano è infatti legata a un rapporto con gli utenti che non si riduce alla mera prescrizione di farmaci; secondo il famoso medico doveva essere il sistema sanitario a raggiungere i cittadini più fragili, perché ci fosse una presa in carico collettiva del malessere. Ora, molti denunciano un ritorno a una visione più oggettivizzante. Tra loro, anche Alice Castagna, utente di uno dei Csm di Trieste, che ha voluto esprimere le sue preoccupazioni in una lettera aperta. «Sono una ragazza di 21 anni. Vado in terapia psicologica da otto. Ho fatto più di 100 accessi in pronto soccorso negli ultimi quattro anni. E ho ricevuto più di 50 sedazioni intramuscolari all’interno delle strutture ospedaliere psichiatriche», scrive. E qualche riga dopo, fa un appello agli operatori della Salute mentale. «Avete gli occhi. Allora osservate. Avete una bocca. Allora parlate. Avete delle mani. Allora utilizzatele per fare una carezza e non per bloccare. Avete delle braccia. Allora utilizzatele per abbracciare di più. Avete una pancia. Allora ascoltate le vostre emozioni senza far finta di essere apatici e freddi. Fate arrivare la vostra vicinanza a chi è più fragile di voi, a chi è di “cristallo”, a chi, semplicemente, vorrebbe non sentirsi più solo».

1/continua

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