di Luigi Benevelli
Seminario UNASAM, 21 gennaio 2022

Concordo del tutto con l’elaborazione della prof. Paola Carozza, col complesso delle analisi e della descrizione dei requisiti professionali e operativi che dovrebbero trovare riscontro nei nostri DSM, compresi i rapporti  con gli Utenti e i Famigliari, con i medici di medicina generale già nella fase di formazione, e il potenziamento del ruolo dell’ISS anche per quanto riguarda la ricerca. Ciò premesso, ho pensato di soffermarmi nel mio contributo  su alcuni aspetti di estrema criticità in cui versa da troppo tempo il  lavoro degli operatori nell’assistenza psichiatrica pubblica.

Parto da quel nervo sensibile che è il rapporto fra gli operatori della psichiatria “pubblica” e i protagonisti della vita politica,in specie gli amministratori della cosa pubblica: la mia opinione è che da quando la psichiatria è diventata una branca della medicina scientifica, quindi ancora oggi, ovunque, gli psichiatri “pubblici” hanno fatto politica, amministrato più o meno bene le risorse assegnate, proprio in ragione del loro ruolo nella promozione della salute (mentale) degli assistiti e nella costruzione/gestione di Servizi collocati ben dentro la Sanità pubblica, regolati da “leggi speciali”, come nessun’altra attività assistenziale, in ragione dello status degli assistiti, come noto, privati o limitati, per legge, nell’esercizio dei diritti di cittadinanza. Questo accadde quando erano aperti i manicomi, nel rapporto, in particolare, fra Presidenti delle Province e Direttori dei manicomi. Eloquente è al riguardo l’esperienza di Franco Basaglia che, esercitando appieno i poteri che gli conferiva essere Direttore, seppe stravolgere metodi, regole, finalità del lavoro di cura vigenti, ma sempre in accordo con chi amministrava la Provincia. E quando si ruppe il rapporto di fiducia, come a Gorizia, se ne andò; così come un ruolo importante, decisivo ebbe Michele Zanetti a volerlo a Trieste. Nelle Province dove, dieci anni prima della 180, le Direzioni dei manicomi e gli amministratori locali erano ostili alla legge 431/68 che introduceva il “ricovero volontario” e restituiva diritti ai pazienti, chi si batteva per l’applicazione della legge non faceva carriera, doveva “cambiare aria”. Questo per dire che da soli, senza il consenso e il confronto continuo col potere politico-amministrativo nemmeno gli operatori psichiatrici “democratici”  sono mai andati da nessuna parte, men che meno adesso che la sanità pubblica  è gestita dalle Regioni, da “Governatori” che controllano direttamente le singole Aziende Sanitarie e i singoli DSM. I drammi recenti  vissuti violentemente dai Servizi triestini sono gli stessi che vivono da anni, decenni, i DSM di gran parte del resto d’Italia.

Anche oggi abbiamo bisogno quindi, non di meno, ma di più relazioni con la politica e con le Istituzioni della Repubblica. Purtroppo tutto questo è da tempo molto più difficile perché la politica è latitante, non risponde e perché i partiti politici hanno perso radicamento locale e i rappresentanti del popolo prestigio.

È mia opinione che nella nostra richiesta di una urgente interlocuzione con la politica e le Istituzioni dobbiamo partire dalla denuncia della negazione in atto delle libertà di parola e di pensiero critico nelle Aziende sanitarie, e dalla necessità di rivedere radicalmente l’assetto attuale del Servizio sanitario nazionale per riaffidarne la gestione ai Comuni. Ma perché questo sia messo all’ordine del giorno dobbiamo riuscire a raggiungere l’attenzione e il rispetto della politica a livello locale, regionale, nazionale e ottenere che,  cogliendo l’occasione delle drammatiche carenze e distorsioni evidenziate dalla pandemia da Covid, partiti, ANCI, Consigli regionali, Parlamento si impegnino in una stagione di severa rivisitazione, di seria “manutenzione” del  Servizio sanitario nazionale..

In particolare, mi riferisco non solo alla grande disomogeneità delle situazioni fra Regioni  e all’interno di ogni Regione, ma soprattutto alle gravi carenze organizzative, operative, di impianto e culturali cui è urgente mettere mano a partire dalla verifica in una discussione pubblica delle condizioni in cui versano i singoli DSM  nei territori e nelle comunità locali.

A tale proposito, a mio avviso, le carenze più gravi sono frutto delle torsioni cui fu sottoposto il SSN negli anni ’90 del secolo scorso  da una parte con la scelta dell’aziendalizzazione delle USL e dall’altra con il disconoscimento del ruolo dei servizi nella formazione degli operatori. Nelle Aziende Sanitarie gestite da manager  nominati dalle Giunte Regionali, le scelte gestionali sono per gran parte calate direttamente dalle Giunte stesse, poco o niente  verificate con le Amministrazioni locali;  il contributo dei professionisti è mortificato, quando non censurato al limite di condizioni di lavoro nelle quali non è garantita la libertà di parola,e talvolta anche quella di pensiero. Questo a fronte di grandi, importanti risorse professionali che si misurano quotidianamente con problematiche complesse, in continuo cambiamento, problematiche che richiederebbero una discussione  continua e una verifica severa di quello che si fa e di come lo si fa.

Fu proprio un tale lavoro che consentì Il superamento di una sanità basata sulle mutue e su una grande, diffusa istituzionalizzazione dei cittadini con patologie ad andamento cronico e invalidante: almeno per una ventina di anni, in Italia, migliaia di operatori hanno dovuto e saputo modificare modi, culture professionali, finalità, organizzazione del proprio lavoro non solo nei manicomi, ma anche negli ospedali generali, nei servizi di prevenzione, in quelli per le tossicodipendenze. E ospedali, manicomi, istituti, servizi territoriali senza letti si fecero luoghi di formazione, aggiornamento professionale continuo.

Qui è intervenuto lo stop imposto dalle Facoltà Mediche che ottennero di essere riconosciute come uniche, esclusive istanze autorizzate a fare formazione per tutte le professioni sanitarie. Ed  ottennero il numero chiuso per organizzare al meglio la didattica nei corsi di laurea, a prescindere dalle esigenze del SSN, con gli esiti che stiamo drammaticamente verificando per la mancanza di migliaia di medici e infermieri. A tale riguardo sarebbe il caso che il Ministro della salute interpellasse  quello dell’Università per cominciare a rimediare al vuoto riprogrammando il numero degli accessi ai corsi di laurea. Non solo, ma l’interruzione delle comunicazioni fra Facoltà mediche e SSN ha prodotto la delegittimazione/derubricazione dei saperi che alimentano le attività di cura più complesse: ne sono un esempio le difficoltà del lavoro per la salute mentale con molte persone “extracomunitarie”  immigrate che popolano sempre più le nostre città e i nostri villaggi. Riguardo a questo ultimo problema, propongo che nei DSM  il parametro bio-psico-sociale di riferimento sia integrato con quello antropologico.

È urgente per questo pretendere dal Governo nazionale, e da quelli regionali, dai Comuni e dalle Facoltà mediche una seria interlocuzione per rimettere in asse quella realtà straordinaria che è il Servizio Sanitario Nazionale, affidandone la gestione a Aziende  Comunali, perché sono solo i Sindaci, non a caso la massima autorità sanitaria locale, a dover conoscere le complessità delle storie, delle condizioni e dei problemi delle famiglie, riconoscendo libertà di parola e di pensiero a chi vi lavora e riconoscendone le competenze in ordine alla formazione permanente.

Luigi Benevelli