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di Paolo Peloso

L’incidente accaduto in via Borzoli a Genova domenica 10 giugno, nel quale ha perso la vita il ventunenne Jefferson Garcia Tomalà ed è rimasto ferito un sovrintendente della Polizia di Stato, è un fatto tragico e il primo sentimento che si prova è un immenso dolore per il giovane, per la sua famiglia e anche per il personale di Polizia direttamente coinvolto.Gli antecedenti sono noti. In sintesi pare che un ventunenne ecuadoriano, da poco padre, litighi con la moglie il sabato sera; le Forze dell’ordine intervengono e si riesce in un modo o nell’altro a metter pace con il pastore della chiesa protestante cui la famiglia appartiene che offre temporanea ospitalità a moglie e bambino. La domenica pomeriggio nuova lite in famiglia, il ventunenne questa volta è armato di un coltello e minaccia di uccidersi, forse minaccia anche altri, forse ha bevuto. La madre chiama il 112 e vengono inviati sul posto alcune pattuglie di Polizia e un medico. La sequenza dei fatti da quel momento è meno chiara, ci sono versioni contrastanti e abbiamo troppo rispetto per il dolore di tutti per fare congetture. Alla fine c’è l’odore di uno spray urticante usato dalla Polizia, uno dei poliziotti ha ricevuto più coltellate dal giovane ed è ferito all’addome, l’altro ha fatto fuoco più volte ed è ferito in modo lieve,e il ragazzo è morto ucciso dai proiettili.

Non è però il tragico episodio in sé, sul quale si pronuncerà chi ha informazioni e competenza per farlo, che ho accettato di commentare, ma invece il fatto che in più occasioni le autorità e la stampa hanno fatto riferimento in questi giorni ad esso come a un TSO mortale, mentre questa definizione mi pare fuorviante e cercherò di argomentare perché. E ciò non certo con l’intenzione di insegnare alcunché a nessuno, ma perché la chiarezza in eventi di questa importanza è fondamentale.

Il fatto saliente è la chiamata da parte della famiglia che segnala un’emergenza: il ragazzo ha un coltello, ha propositi suicidi, pare abbia bevuto. Come spesso avviene, questaemergenza presenta dueaspetti diversi: unodi pubblica sicurezza (il ragazzo è armato di un coltello e minaccia di uccidersi) e uno sanitario (minaccia di uccidersi). In questa situazione, dei due aspetti il primo è quello che, evidentemente, è più urgente affrontare: mettere in sicurezza la situazione, eliminando il coltello e assumendo il controllo dell’ambiente (impedendo cioè l’acceso alle finestre o ad altri oggetti atti ad offendere/si). Prima che questo avvenga, è prematuro porsi il problema se sia o meno necessario un trattamento sanitario, volontario od obbligatorio che sia. In questa prima fase sono protagonisti gli operatori della Pubblica sicurezza, i soli titolati all’uso della forza se necessario. E non è certo questo loro un compito facile, ne siamo ben consapevoli: disarmare un giovane adulto badando a che non si faccia male nessuno,né lui, né se stessi, né terzi eventualmente presenti.

In quest’opera di messa in sicurezza della situazione, prima di avvalersi dell’uso della forza o addirittura delle armi, gli operatori di Pubblica sicurezza hanno uno strumento del quale probabilmente anche in questo caso hanno tentato di avvalersi: la persuasione, che qui intendo in senso molto ampio. Parrebbe che fosse stata sufficiente, almeno temporaneamente, la sera precedente, quando però non c’era di mezzo il coltello. Tutti possono manovrare, evidentemente, questo strumento che nascedalle qualità umane delle quali ciascuno è dotato, eanche gli operatori della Pubblica sicurezza – proprio per situazioni come questa – dovrebbero essere in qualche misura esercitatinel suo utilizzo, così come immaginiamo lo siano all’utilizzo di altri strumenti (la forza, le armi ecc.). Gli esperti didiscipline psichiatriche possono eventualmente essere loro utili in questo, all’interno di un quadro generale di collaborazione e sforzo di reciproca comprensione che è senz’altro importante.Se poi gli operatori della Pubblica sicurezza avvertono di non farcela da soli a persuadere, possono chiedere l’ausilio del personale sanitario, che dovrebbe essere più esperto a questo riguardo;e se neppure questo è sufficiente, anche il personale sanitario può cercare a sua volta l’ausilio del personale formato nelle discipline psichiatriche, che dovrebbe essere ancora più esperto nella persuasione. Ma sappiamo, comunque, che la persuasione – chiunque e per quanto a lungo si sforzi di esercitarla – non è uno strumento onnipotente, e non ci si può aspettare che risolva tutte le situazioni. Siamo, in ogni caso, finora ancora nella prima fase dell’intervento di emergenza, quella della messa in sicurezza della situazione, che vede protagonisti – perché c’è di mezzo un’arma – gli operatori della Pubblica sicurezza, e gli altri operatori a collaborare in posizione più o menoausiliaria.

Solo una volta che questa prima fase dell’intervento di emergenza siarisolta,e la situazione sia messa in sicurezza, è possibile passare alla seconda fase, quella che, eliminato il coltello, consente la presa in carico degli aspetti sanitari (emotivi ecc.) e vede protagonista il personale sanitario. Il medico può ora valutare la situazione e la possibilità di risolverla con un trattamento sanitario, cioè congli strumenti della relazione ed eventualmente della somministrazione di farmacio, se il livello di angoscia e l’intenzionalità suicida rimangono elevati, anche la proposta di un ricovero. E questo passaggionon deve essere considerato una mera ipotesi teorica, perché è possibile che quando un soggetto è stato disarmato,questo solo possabastare ad abbassare il livello d’angoscia e favorire l’apertura alla relazione, e quindi la costruzione del consenso a quello che il medico consiglia. Se questo consenso non maturae l’intenzione suicida e l’angoscia rimangano elevate allora, e solo allora,giunge per il medico il momento di valutare come extremaratio la possibilità di procedere ad impostare un trattamento sanitario obbligatorio (TSO).Il che apre una terza fase dell’intervento.

Quello che ho cercato di argomentare, quindi, è che l’intervento di emergenza mista di pubblica sicurezza e sanitario è un processo articolato in più fasi, che ha una sua specifica dignità e durata, e non può essere appiattito sul TSO, che rappresenta solo uno degli esiti possibili. Così facendo, si perde la possibilità di focalizzare nella loro importanza e analizzare in modo sequenziale ciascuna delle fasi dell’intervento, evidenziando per ciascunai momenti critici e le cose da migliorare. In particolare, mi pare che debba essere chiaro che disarmare un soggettoche minaccia se stesso o altri – chiunque sia e in qualunque stato di salute si trovi – non è parte di un TSO perché non è, più in generale, un trattamento sanitario.

1 Comment

  1. luigi benevelli

    Grazie Paolo per la ricostruzione critica puntuale del tragico evento e del significato più pregnante delle parole usate nella comunicazione di massa, luigi b,

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