assembleaDi Paolo F. Peloso, psichiatra

Recensione del libro Mi raccomando non sia troppo basagliano. La vittoriosa sconfitta del manicomio aperto di Gorizia (Roma, Armando, 2020, 19 euro) di Ernesto Venturini

C’era ancora qualcosa da dire che non fosse stato detto su quella storia straordinaria che è stata la lotta antiistituzionale nell’ospedale psichiatrico di Gorizia tra il 1961 e il 1972? Beh, evidentemente sì, c’era soprattutto qualcosa da dire sugli ultimi quattro anni quando, dopo che Basaglia ha lasciato Gorizia, il resto dell’équipe ha proseguito il lavoro sotto la guida di Agostino Pirella prima e Domenico Casagrande poi. In genere quel periodo è considerato l’agonia di un’esperienza che aveva toccato il suo apice con la pubblicazione de L’istituzione negata, ma già John Foot aveva scritto nella sua ricostruzione della riforma italiana che le cose non stavano così. Che dopo la partenza di Basaglia a Gorizia si era continuato a lavorare. E bene ha fatto ora Ernesto Venturini a raccogliere ricordi e documenti per spiegare cosa è successo in quegli ultimi quattro anni, e come è maturata la decisione – clamorosa e poi molto discussa – dei basagliani di andarsene.

«Mi raccomando non sia troppo basagliano» è la frase con la quale l’assessore democristiano alla sanità della provincia di Gorizia, Ermellino Peresin, accoglie Domenico Casagrande nel momento in cui, dopo che Pirella ha lasciato per Arezzo nel luglio del ’71, riceve l’incarico provvisorio di direttore dell’ospedale psichiatrico. Raccomandazione quant’altra mai destinata a cadere nel vuoto! Perché se un obiettivo in quel momento Casagrande e gli altri hanno chiaro è proprio quello di portare a compimento, senza Basaglia, il lavoro iniziato con lui dieci anni prima in un rapporto di parallelismo/competizione con la sua Trieste. Anzi, semmai la sensazione che si prova leggendo il libro è che un’eterodirezione dell’esperienza di Gorizia da parte di Basaglia non sia mai veramente venuta meno, e che quella che veniva giocata in quel momento fosse una partita su più tavoli: a Trieste, dove la Provincia si dimostrava concretamente coinvolta nel progetto di chiusura; ad Arezzo, dove si era nel frattempo portato Pirella; a Ferrara, dove a partire dalla direzione del Cim Slavich tentava l’assalto all’Ospedale; e anche a Gorizia dove, fino alla resa dei conti del ’72, ad attestati di stima e interesse personale da parte del presidente Bruno Chiantaroli non corrispondevano ormai azioni conseguenti.

Ma procediamo con ordine. Il libro si compone di quattro capitoli e un’ultima parte di allegati.

Il primo inizia riprendendo la vicenda goriziana concentrandosi sul finale e leggendola con un utile parallelo con quanto accadeva in quegli anni intensi e appassionati, «formidabili» come ebbe a dire Mario Capanna. Basaglia lascia Gorizia il 21 dicembre 1968 ma lo fa senza scuotersi la polvere dai calzari; all’opposto, si preoccupa di lasciare l’esperienza in buone mani, quelle di Agostino Pirella. Su questo passo deve sicuramente avere pesato la sovraesposizione della sua figura, della quale certo il clamore seguito all’incidente Miklus è stata una riprova (e forse non è un caso che anche Slavich sia tra i primi a lasciare dopo di lui), ma senz’altro anche la sensazione di aver costruito un gruppo che poteva procedere anche autonomamente. Per un breve periodo nel gennaio/febbraio 1970 Basaglia ritorna a Gorizia, verifica l’andamento della conduzione Pirella e, soddisfatto, riprende l’aspettativa. Pirella lascia a sua volta Gorizia in altre buone mani, quelle di Casagrande, che è il più giovane dei medici della prima équipe, quella de L’istituzione negata, e il più anziano della seconda équipe. L’allontanamento di Basaglia è salutato dall’uscita di un articolo pubblicato da Peresin sulla rivista locale Iniziativa isontina, che già dal titolo si propone come controcanto de L’istituzione negata e dà della vicenda goriziana una lettura tutta in negativo, specie dopo che, andandosene, Basaglia l’avrebbe lasciata nelle mani di un gruppo di medici giovani e impreparati.

Ma tra il 1969 e il 1972 invece a Gorizia si continua a lavorare nello stesso modo nel quale si era iniziato a lavorare con Basaglia, e al lavoro del gruppo corrisponde una crescita della pressione dei pazienti verso quell’esterno, del quale si continuava a parlare ma che ancora non si vedeva all’orizzonte. Occorrono automobili per accompagnare i pazienti all’esterno, e gli infermieri mettono a disposizione le proprie, e poi si vedono negare anche solo il rimborso della benzina. Si è pronti ad aprire il primo dei Centri di salute mentale all’esterno per accompagnare le dimissioni, del quale si stava parlando dal ’63; la cosa parte con entusiasmo ma poi l’amministrazione pone un  inspiegabile blocco. Non è l’agonia dell’esperienza goriziana, come in genere si è ritenuto, la direzione Casagrande, dunque: Gorizia sta andando avanti! Ma in ogni modo si cerca di farle lo sgambetto. Ed è così che si arriva all’ultimatum: direttore e medici si sarebbero dimessi dopo un mese, a meno che la situazione non fosse sbloccata. Si era giunti a un ingorgo dal quale non si poteva che andare avanti o indietro, insomma. Il 20 novembre 1972 i medici danno lettura in Assemblea generale della loro lettera di commiato: «In queste condizioni noi stessi, alle vostre legittime domande quando vado a casa?» – scrivono tra l’altro – «dovremmo riprendere le menzogne dei vecchi manicomiali che rispondevano domani, sapendo bene che quel domani non esisteva nel vostro calendario». E poi ancora: «Quando uno di voi ha detto che la trasformazione in atto nel nostro ospedale non era opera dei medici, ma che i medici avevano messo le chiavi nella toppa e i malati le avevano poi girate per aprire la porta, aveva dimostrato di aver capito quello che altri organi responsabili non hanno ancora compreso».

Ora il pallino è nelle mani dell’Amministrazione che si trova costretta a una scelta: avanti con Basaglia e i basagliani, o indietro senza di essi (contro di essi). L’esito è noto, ma gli antefatti lo erano molto meno. Adesso la loro conoscenza sposta sostanzialmente la data del disimpegno da Gorizia avanti di quattro anni; e la responsabilità della fine dell’esperienza dai medici, che sarebbero stati disposti ad andare avanti, all’Amministrazione, alla quale era stata data l’opportunità di varcare per prima il Rubicone e fare accadere ciò che sarebbe accaduto anni dopo a Trieste, e l’ha rifiutata. Di fronte alla risposta dell’Amministrazione i medici sono conseguenti: lasceranno Gorizia e contribuiranno ad arare terre più fertili a Trieste, Ferrara, Arezzo, Pordenone. Rimangono infermieri e malati, ai quali non può essere risparmiata la restaurazione.

venturiniNel secondo capitolo, tre medici protagonisti in quella fase raccontano ciascuno la sua esperienza. Per Venturini si è trattato di lasciare le corsie dell’Università Cattolica di Roma per entrare «per sempre, in una nuova dimensione della vita», che lo avrebbe portato a riprendere tante volte la lotta antiistituzionale a Imola, in Mozambico, in Brasile. Mi piace particolarmente la descrizione molto realistica di alcune situazioni di gestione della crisi con lo “stile” dei goriziani: si tratta di aprire spazio alla naturalità dei gesti e delle parole, alla possibilità di esplorare soluzioni originali, di rimandare quando è possibile l’interfaccia a un momento più opportuno, di essere disponibili anche a temporanei passi indietro e anche di correre, quando è necessario, qualche rischio personale. E anche quando ritorna su un nodo delicato, lo stesso affrontato da Slavich ne L’istituzione negata: la misura nella quale una reale restituzione di potere e responsabilità è concretamente possibile, e la contraddizione tra l’Assemblea generale come strumento di reale autogoverno della comunità e la presenza della riunione come “dietro le quinte” (scena primaria?) riservato allo staff.

Casagrande comincia col ricordare la sua designazione a 33 anni a nuovo direttore da parte di Basaglia, con il quale lavorava dal ’65, proveniente dall’Università di Bologna, una designazione che è interessante, di nuovo per comprendere lo “stile” di lavoro, che sia poi l’Assemblea generale a ratificare, così come alla fine è all’Assemblea generale, dove «la discussione fu molto accesa, ma anche molto veritiera e aderente alla realtà», che l’équipe medica rende conto delle dimissioni. Poi la vicenda della mancata apertura del Csm, i dissidi sempre più frequenti con l’Amministrazione, la proposta di dimissione di 130 malati che presentano condizioni cliniche che le consentono e che per quell’obiettivo stavano impegnandosi da tanto. Nel bilancio del direttore, a Gorizia «imparai a trattare i malati come persone e non come oggetti, a interessarmi della loro vita» (e non stancandoci quindi mai di leggere e rileggere di Gorizia, io credo che anche noi possiamo essere aiutati a farlo). Quanto a Basaglia: «era una persona affascinante, molto disponibile. All’inizio ti colpiva il fatto che fosse pieno di tic, ma poi ti ci abituavi e queste contrazioni ti rendevano il personaggio ancora più umano».

La terza testimonianza è di Paolo Serra, che giunge a Gorizia proveniente dall’Università La Sapienza di Roma. A colpirlo innanzitutto il fatto che lì si interpellassero – su decisione di Basaglia, perché la deistituzionalizzazione riguarda in primo luogo le piccole cose – i ricoverati sul menù del giorno dopo. Poi il soggiorno vacanza a Lusnizza, significativamente accompagnata dal refrain di una canzone cantata allora da Gigliola Cinquetti E questa è casa mia, e qui comando io…, ed un’esperienza che anche Jervis aveva fatto anni prima di lui e ha ricordato con commozione. Poi l’Assemblea, la vera colonna portante dell’esperienza «da quando Basaglia per la prima volta aveva disposto le sedie in circolo per parlare con tutti e fra tutti».

Al momento di lasciare Gorizia il cuore di chi partiva era triste, e certo comprendiamo che il breve corteo delle automobili in arrivo evocasse nelle emozioni di chi lasciava un funerale.

Seguono col terzo capitolo altre opinioni. Un incontro del ’77 tra Venturini e gli infermieri del Circolo operatori sociali e psichiatrici (Cosp), cioè il gruppo di operatori basagliani che erano rimasti a Gorizia e non si erano rassegnati alla marcia indietro loro imposta. Tra le varie affermazioni che emergono, colgo quella per cui nei cinque anni che sono trascorsi non è stato solo l’Ospedale psichiatrico a cambiare, ma – a dieci anni ormai del ’68 – è la società a essere cambiata e a far sì che i malati adesso siano meno accettati. Ed è interessante perché significa che, già nel momento in cui la Legge 180 veniva approvata l’anno successivo, il clima generale era cambiato rispetto a quello che aveva favorito le esperienze dalle quali essa nasceva, e certo ciò deve avere  costituito (e ancora di più costituì negli anni ’80 e oltre) un problema. E poi anche la considerazione di un altro infermiere che alla domanda sul perché i nuovi medici abbiano interrotto le assemblee si risponde: «non le fanno, per non mettersi in discussione, per non abbassarsi a parlare con chi non ha la loro istruzione», il che probabilmente era vero in quella fase a Gorizia, ma lo è anche oggi nei tanti luoghi dove l’idea di confrontarsi alla pari “con tutti e fra tutti” sarebbe considerata un’eresia.

Segue un incontro di Venturini con Sergio Zavoli, dal quale emerge come il suo interesse per la vicenda basagliana non si limiti al bellissimo e giustamente famoso documentario realizzato alla fine del ’68, I giardini di Abele, ma è stata una costante dell’impegno di questo giornalista di straordinaria umanità, del quale questo 2020 ci ha privato. Del ché è prova ulteriore la sua intervista con Franca Ongaro Basaglia, della quale Venturini riprende ampi stralci, nei quali ad esempio lei ricorda: «Dunque, il primo bisogno, il primo dovere era dare una vita e una dignità a quelle persone e intanto cercare di capire. Tutto questo è stato per anni interpretato da molti come la “negazione dell’esistenza della malattia”, che ci ha perseguitato come un marchio togliendo significato, in buona e cattiva fede, a tutto ciò che si rivelava come un’umanità schiacciata, sofferente, bisognosa di sostegno e di aiuto ma ancora capace di rapporti, capace di incominciare a riprendere in mano non ancora la propria vita, ma la propria sofferenza, le proprie menomazioni e anche le proprie responsabilità, pretendendo rispetto e diritti».

O ancora: «Una bambina, mi pare all’epoca di Trieste, incontrando non ricordo in quale occasione, un gruppo di degenti, aveva commentato: Sono buoni, sono gentili, hanno paura della nostra paura. È vero, tuttavia, che la follia che ti guarda negli occhi ti mette alla prova, ti sfida. Ricorda, dottor Zavoli, Franco nel suo I giardini di Abele? Bisognava reggere la sfida che c’era nel suo sguardo che riduceva tutto all’osso, poi si poteva essere all’altezza della sua sofferenza e della sua compagnia. Almeno così lo sentivo io. La questione viene dunque spostata da ciò che è stato definito “incomprensibile” alla capacità di chi deve comprendere, reggere lo sforzo che richiede e ricavarne insieme un arricchimento, un alimento anche per la comprensione di sé».

Al che soggiunge Zavoli: «Durante una manifestazione in un ospedale psichiatrico, in Liguria, un ex paziente si alzò e disse Eppure, molte volte, io che tanto soffrivo, avrei desiderato una semplice carezza! Ma nessun medico, nessun infermiere me l’ha mai data. Le ricorda qualcosa questa testimonianza?».

E lei ancora in risposta: «Ho frequentato, per un breve tempo, un reparto “donne” ancora chiuso nella fase di avvio del lavoro: un androne con una sfilata di panche alle pareti, quindi una sfilata di donne di tutte le età, insaccate in grembiuloni grigi tutti uguali, mute, per lo più a testa china, chiuse ciascuna in un mondo separato, mentre altre camminavano scontrandosi, imprecando, urlando. Un inferno di silenzio e insieme di rumore. Che fare per incominciare? Avevo portato con me una palla di pezza pescata in casa. Una donna, in particolare, aveva attratto, con un po’ di repulsione, la mia attenzione perché, nella sua immobilità, aveva una bava verde che le colava dalla bocca. Mi avvicinai a lei e provai a gettare la palla per vedere se reagiva in qualche modo. Nulla, né un movimento, né un rumore, né una parola. Provai molte volte ancora finché le sue mani cominciarono a muoversi nel tentativo di afferrarla. Continuammo così per giorni. Quando arrivavo incominciai ad accorgermi che mi aspettava, sempre muta ma incominciando a guardarmi, finché una mattina mi venne incontro e pronunciò con fatica, balbettando, il mio nome. Non ricordo il seguito, ma questo inizio mi è rimasto dentro: le era stata data solo un po’ di attenzione e di rispetto».

Un’altra delle opinioni raccolte da Venturini viene da lontano ed è quella della brasiliana Maria Stella Brandao Goulart, della quale viene riportata anche un’intervista inedita a Pirella del 2001 dove si legge, sempre a proposito di Gorizia: «Noi facevamo delle riunioni dalla mattina alla sera; stavamo in ospedale un numero di ore impressionanti, diciamo, dodici ore al giorno… Questo era reso necessario dall’innovazione che stavamo attuando, perché, se si fa una cosa nuova, non si può farla superficialmente, la si deve fare con una partecipazione totale… È stato un lavoro appassionante, un lavoro entusiasmante, ma anche un lavoro duro, molto faticoso… Abbiamo trascurato la famiglia, ci siamo negati il riposo. Per tanti è stato un lavoro impegnativo. Però è stato un lavoro assolutamente indispensabile: non si poteva che farlo così!».

E credo che sia proprio vero: volendo fare psichiatria secondo lo “stile” goriziano, non è possibile cullarsi nell’illusione che sia sufficiente fare onestamente il proprio lavoro, ma occorre crederci, appassionarsi e lavorare molto di più. Se no è inutile stupirsi se le cose non funzionano.

Nel quarto e conclusivo capitolo, così, non ci sorprende leggere da parte di Venturini: «Non essere troppo basagliani? No. Grazie! Al contrario, noi cerchiamo, noi vogliamo, anche in questo nostro presente così difficile e contraddittorio, continuare a essere basagliani… e quanto più possibile!». Con buona pace dell’assessore Peresin dunque, e di tutti i Peresin che anche oggi quotidianamente ci chiedono di non essere troppo di disturbo, noi e i nostri pazienti.

Tra gli allegati, rivestono grande interesse per la comprensione di questa storia breve ma importante la lettera del presidente della Provincia Chiantaroli a Basaglia e quella, coraggiosa e orgogliosa, al presidente delle assistenti sociali; gli stralci di giornale sulla clamorosa decisione delle dimissioni dell’équipe; una cronistoria in parallelo dei grandi eventi della politica internazionale e nazionale e della vicenda goriziana tra ’69 e ’72, utile soprattutto ai più giovani; alcune testimonianze di solidarietà all’équipe nel momento in cui metteva in atto la dolorosa decisione di lasciare.

Qualcuno – e tra questi anche Dell’Acqua che, certo, alle scelte di Basaglia non è in genere ostile – ritiene che la decisione di lasciare Gorizia, gli infermieri e i malati con i quali tutto era nato al loro destino dovesse essere evitata, che forse l’ultimatum non avrebbe dovuto essere posto in modo tanto radicale da lasciare in una storia generosa e avvincente, come quella della deistituzionalizzazione, questa macchia. Il merito del libro è fornire molti dati, dei quali i più non disponevano, su quelli che erano i rapporti di forza e le circostanze in quel momento, e sulle modalità con le quali quella conclusione è maturata. La pressione del lavoro di deistituzionalizzazione giunto a maturazione da un lato e la titubanza dalla quale l’Amministrazione non pareva decidersi a uscire dall’altro, parrebbero aver determinato una tenaglia dalla quale certo sarebbe forse stato meglio trovare un’altra uscita, ma non è facile immaginare quale potesse essere.

Al di là della vicenda specifica, comunque, mi pare che il libro sia utile – anzi, necessario, azzarderei – insieme a quelli scritti allora, agli operatori di oggi per comprendere cosa fosse quello “stile” goriziano con il quale il gruppo di Basaglia ha lavorato dal ’61 al ’68 e ha continuato a lavorare senza la sua presenza diretta – ma sempre in stretto rapporto con lui  dal ’69 al ’72.

È a quello stile che credo che oggi si debba ritornare a guardare, perché la nostra psichiatria, che è improntata alla deistituzionalizzazione nell’assetto organizzativo generale, riesca a esserlo – il che è molto più difficile – anche nella vita concreta delle sue nuove istituzioni e soprattutto delle relazioni umane che in esse hanno luogo. Così, contribuiremo anche noi a far sì che quella che è stata allora una sconfitta possa dimostrarsi davvero alla lunga vittoriosa.

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