pillsDi Allegra Carboni

Secondo me prendiamo troppe medicine

Andiamo troppo dal dottore

Anche se è solo un raffreddore

Se c’è una cosa che mi fa spaventare

Del mondo occidentale

È questo imperativo di rimuovere il dolore

[Secondo me, Brunori Sas]

Giugno, 2010. In occasione del convegno sul tema della salute mentale Impazzire si può, Fabrizio Gifuni legge un contributo di Nicola Pasa (associazione Mondo di Holden) sull’utilizzo degli psicofarmaci. Pasa racconta la storia di un uomo, Franco, che giunge nello studio di uno psichiatra: si sente un po’ giù perché la sua fidanzata, Margherita, è morta da poco. Per ritrovare la pace perduta il medico gli prescrive una pastiglia che è sicuro gli farà bene, una benzodiazepina. Franco torna a casa, prende il farmaco, riesce inizialmente a dormire ma poi sembra che nulla sia cambiato e diventa dipendente da quella pastiglia. Negli anni seguenti torna nello studio dello psichiatra, che a più riprese gli prescrive prima un farmaco anti-benzodiazepine, poi un anti-anti-benzodiazepinico nuovo di zecca, dopo ancora un nuovo farmaco per disintossicarsi dai vecchi farmaci e infine un antidepressivo fantastico senza effetti collaterali. Le condizioni fisiche di Franco peggiorano visibilmente nel corso del tempo: dagli iniziali deliri e stati allucinatori che dice di vivere, i farmaci gli creano rigidità muscolare e lo costringono all’amputazione di una gamba, poi il bisogno di denaro per pagarsi le visite dallo psichiatra lo porta a vendere entrambi i reni. Franco diventa una larva umana adagiata su una sedia, priva di gambe e senza un braccio, con la bocca che non si muove più e il suono della sua voce che esce da un sintetizzatore collegato al cervello. Non ha più bisogno di nutrirsi, è degente in un lazzaretto di carità e viene alimentato con un sondino. Alla fine la voce di Franco, proveniente da una scatoletta di cartone appoggiata sulla scrivania del dottore, ringrazia lo psichiatra perché il farmaco per guarire dalla depressione gli ha permesso di non ricordare più niente.

Nel corso degli ultimi decenni si è osservata una diffusa tendenza a ricorrere all’utilizzo di psicofarmaci come gli antidepressivi in situazioni di difficoltà e sofferenza psicologica, senza indagare le radici del malessere per tentare di comprendere, assieme alla persona stessa, le cause del disturbo. Come se per curare una ferita d’arma da fuoco fosse sufficiente disinfettare la zona cutanea interessata e applicare una benda, senza intervenire per rimuovere il proiettile e i suoi eventuali frammenti.

Il trattamento farmacologico non può essere considerato l’unica forma di terapia possibile, da eseguire schematicamente secondo rigidi dosaggi indicati sul foglietto illustrativo del farmaco. Sono necessarie azioni riabilitative e terapeutiche incentrate sulla persona, che portino a realizzare interventi seguendo la bussola dei cosiddetti determinanti della salute, non sempre palesemente sanitari: povertà, esclusione sociale, accesso ai servizi. Quello delle microaree è un importante progetto locale e plurale che agisce in modo proattivo su queste problematiche, proponendosi di intervenire sui determinanti non sanitari di salute, in una logica di inclusione, equità di accesso e risposta ai bisogni di salute, rafforzando e valorizzando la comunità.

Ricordo quando al primo anno di Medicina, durante il corso di economia – di cui all’inizio faticavo a comprendere l’utilità e la collocazione rispetto al resto del corso di studi – il professore dedicò buona parte di una delle prime lezioni al problema dell’asimmetria informativa, fattore dal peso non irrilevante da cui dipende la stessa natura del settore sanitario: si tratta dell’incapacità del singolo di diagnosticare il proprio bisogno di salute e di affidarsi totalmente alla figura medica che si ritrova davanti. Il risultato? Il dottore dice a Franco di prendere benzodiazepine, anti-benzodiazepine, anti-anti-benzodiazepine e antidepressivi e Franco esegue diligentemente. Proprio la riduzione di tale asimmetria è al centro del tentativo di modificare il rapporto fra medico e assistito, relazione in cui, come sosteneva Basaglia, il primo deve esercitare il proprio sapere e non il proprio potere, mettendosi a servizio del pubblico (e non viceversa).

Mark Rice-Oxley, giornalista del Guardian che guida la sezione inchieste, individua nell’articolo Mental illness: is there really a global epidemic? le tre principali cause che rendono il settore degli psicofarmaci altamente controverso: il giro d’affari valutato intorno agli ottanta miliardi di dollari in tutto il mondo, le migliori risposte ai farmaci di alcune persone rispetto ad altre, l’impennata che ha subito la prescrizione dei farmaci negli ultimi anni, in particolare quella degli antidepressivi. Ma il business che avvolge il settore degli psicofarmaci non rappresenta soltanto un ingente giro di quattrini, senza rilevanti effetti collaterali. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, riferendosi a psicosi, disturbo bipolare e depressione, ha diffuso importanti informazioni circa la ridotta aspettativa di vita di coloro che soffrono di uno di questi disturbi mentali: si tratta di morti che sopravvengono in media tra i 10 e i 25 anni prima, soprattutto a causa di condizioni fisiche croniche relative a malattie cardiovascolari, respiratorie e metaboliche, la cui prevalenza in soggetti con disturbo mentale è strettamente correlata a trattamenti farmacologici che non vengono monitorati a dovere. Un esempio? Il tasso di mortalità fra i soggetti affetti da schizofrenia è di 2,5 volte maggiore rispetto a quello della popolazione generale.

Che fare? William Osler, medico canadese considerato il padre della medicina moderna, sosteneva che l’uomo ha una vocazione innata per la terapia e il desiderio di prendere medicinali è una caratteristica che distingue l’uomo dagli animali: secondo Osler è proprio questo uno dei maggiori ostacoli contro cui dobbiamo lottare. E io sono d’accordo con lui.

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