famigliaDi Peppe Dell’Acqua, 2007/2020

Siamo tutti discendenti di Caino. La nostra storia comincia con un fratricidio, con un crimine nella famiglia. Niente di nuovo si potrebbe dire di fronte ai fatti che fisiologicamente accadono nel corso dell’anno, non così tanti per altro, come si pensa. Niente di nuovo. E tuttavia fatti del genere, ci trovano immancabilmente impreparati e, come se fosse sempre la prima volta, riveliamo tutto il nostro sconcerto. L’interesse così esagerato, debordante e morboso che monta di conseguenza sembra voler coprire con fiumi di parole la nostra insicurezza più intima e profonda. Il colpevole certo e rassicurante non può che essere la follia, il mostro, l’alieno, l’altro diverso da me. Bisogno trovare sempre qualcosa che incarni totalmente la colpa. Salvo poi a scoprire con sconcerto che le persone, anche se folli, usano le nostre parole, esprimono sentimenti ed emozioni che non facciamo fatica a riconoscere. Non hanno nulla di mostruoso. Nulla di alieno. Tutto ciò che è umano mi riguarda.

È difficile accettare che dentro di noi e intorno a noi esistano angoli sconosciuti, sottofondi mai frequentati, sentine dell’anima, parti altre e più che oscure, accuratamente nascoste perché incontrollabili. Quando per una qualche circostanza eccezionalissima, un intensissimo amore, per esempio, una perdita, un imperdonabile torto subito, una mortificazione, un desiderio inconfessabile ci avviciniamo a quei luoghi così poco frequentati dobbiamo ritrarci sgomenti di fronte al potenziale di violenza, di distruttività, di crudeltà che è dentro di noi e per un attimo si presenta ai nostri occhi. La normalità nel mondo comune, nel fuori di noi, nei luoghi dei nostri scambi, dell’incontro con l’altro, del nostro quotidiano, nasconde infinite facce e le une trascolorano, trasmutano, si trasformano in altre. Le une contengono le altre. I tranquilli vicini di casa che meditano e mettono in atto impensabili azioni criminose. Il signore della porta accanto gentile e ben vestito che vive in una casa stracolma di spazzatura e di incredibili e inutili collezioni di vecchi utensili di latta. Ci accorgiamo di lui solo quando un danno all’impianto idraulico obbliga i pompieri a entrare. Siamo tutti angeli incatenati al proprio diavolo.

La normalità del nostro mondo interno, del dentro di noi è ancora più minacciata e incerta. Il luogo dei sentimenti, dei desideri, delle passioni non tollera per definizione la normalità e la cerca tuttavia instancabilmente e avverte l’evidenza del male e i segnali violenti e distruttivi del mondo comune come minaccia dolorosa e devastante.

Sogni orribili, paurosi e apparentemente a noi estranei sono talvolta rivelatori e quasi sempre beneficamente riproduttori di equilibri e rigeneratori di risorse per resistere alla ambigua ruvidezza del quotidiano.

La famiglia è il luogo più segnato dall’incontro, così fecondo, del mondo interno e del mondo comune. Senza mai smettere di essere anche la scena celata e terribile della violenza più naturale e selvaggia. Si potrebbe dire l’indicibilità della famiglia. Passioni, sentimenti, emozioni sono ogni giorno in gioco. Con profondità e larghissimi spazi a disposizione. In famiglia argini e confini sono labili o inesistenti.

Il bisogno di separare, di mettere al sicuro le parti sane dall’aggressione e dalla contaminazione delle parti malate, è l’origine dei manicomi, della psichiatria e della psichiatria forense e dell’ostinata riduzione della follia a malattia mentale, a totale infermità. La presenza irriducibile della follia, che è vita, tragedia, gioia sfrenata, dolore mortale, scompare nella razionalità della malattia.

All’inizio del XIX secolo la monomania omicida, la così detta follia lucida, venne invocata per spiegare i raccapriccianti delitti che accadevano nella separatezza, nella riservatezza, nell’intimità di famiglie poverissime o borghesi. Infanticidi, orribili mutilazioni, uccisioni che nella loro minacciosa inspiegabilità mettevano a rischio, minacciavano la sicurezza del nascente stato di diritto. L’ordine morale, le fondazioni etiche sembravano pericolosamente esposte alla devastante imprevedibilità della follia.

La psichiatria e i nascenti manicomi assunsero il compito di segnare il limite e da allora continuano a farlo. Di qui la presenza degli psichiatri nella storia. Nel corso delle tante perizie psichiatriche, un numero esageratissimo, si dispongono diligentemente a cercare una diagnosi. Spesso due e non è raro che si ritrovino intorno al mostruoso periziando in nove, tre per ogni giudice. Un numero spropositato. La psichiatria, a posteriori, con modalità falsamente deduttive, ha il compito di costruire e articolare concatenazioni causali per costruire spiegazioni. Può accadere, e accade, che i periti psichiatri arrivino a tre conclusioni differenti: la persona è totalmente condizionata dalla malattia mentale; non si riscontrano malattie mentali di sorta; è stata solo parzialmente e momentaneamente condizionata dalla malattia. Le tre conclusioni per tre diverse committenze, per tre diverse linee difensive o accusatorie!

Il gesto folle, i gesti reato senza ragione, i delitti efferati sono di per sé disposti alla sovraesposizione mediatica. Una buona pratica dell’informazione dovrebbe semmai mitigare e orientare criticamente l’informazione: sono tante le persone che sono naturalmente attratte e partecipi. Basta poco per alimentare la curiosità morbosa della gente. L’azione così spropositata dei media di fronte a questi fatti appiattisce nella paura, nella ricerca del mostruoso le domande sul mistero della diversità. Così si alimenta l’ansia sociale, il senso di insicurezza, il rifiuto dell’altro. L’azione dei media (e dei periti) finisce per diventare loro malgrado funzionale alla domanda di politiche repressive e la spiegazione così ostinatamente ricercata nel mostruoso, nell’alieno, nella malattia impedisce la comprensione. Non è più possibile trovare tramiti per riconoscere quella madre, quel fratello, quel figlio. Non c’è più spazio per l’ascolto, il presupposto patologico, costruisce alienità e distanza. Sicurezza per tutti.

Al contrario, credo che è la comprensione che dobbiamo ostinatamente ricercare e la comprensione si concretizza soltanto nella normalità e in tutti i gesti, le azioni, le relazioni che la compongono. Dentro la normalità (intendo nel confronto tra quei mondi così apparentemente distanti, orribili e dolorosi) è possibile la comprensione; nel nostro comune mondo quotidiano e nelle nostre passioni, nei nostri incubi, nelle nostre emozioni possiamo cogliere il senso degli eventi più estremi. La comprensione, ovvero il confronto, il riconoscimento dell’altro, della storia, delle presenze singolari e collettive, dei luoghi concreti delle relazioni e degli incontri costringe al riconoscimento dell’umano, alla costruzione di difese più utili per noi, a percorsi di emancipazione per una intera comunità. Parlo qui di una comprensione che sia in grado di contenere anche la compassione, di riconoscere e vivere il dolore con l’altro. Una comprensione capace di allontanare lo sguardo pietoso e indulgente che riduce l’altro ancora ad alieno, diverso, distante. Non più umano. Sto parlando di una comprensione che ci aiuti a dire che tutto ciò che è umano ci appartiene. Solo la comprensione nella normalità può esorcizzare la paura che avvertiamo, dolorosa e tragica dentro di noi e intorno a noi.

Riportato nella storia, nella comprensione sempre possibile, nella normalità, il gesto folle assume la connotazione indiscutibile del reato e non può non pretendere il giudizio, la valutazione della responsabilità che non può che essere soggettiva. Se colpevole non può non pretendere la condanna. L’esecuzione della pena dovrà tener conto di quel singolare soggetto, della sua storia, dei condizionamenti subiti nel corso della vita.

Write A Comment