(disegno di Ugo Guarino)
(disegno di Ugo Guarino)

Parla Franco Rotelli, allievo del padre della norma che portò all’abolizione dei manicomi: «Ecco come possiamo migliorare la 180»

Di Mauro Pianta

Giusto quarant’anni fa, nell’estate del 1977, Luciano Manzi, l’allora sindaco di Collegno – nel Torinese – in accordo con le istituzioni sanitarie territoriali, decise di far abbattere il primo pezzo del muro di cinta che circondava il manicomio (l’attuale parco della Certosa). Qualcosa di più di un atto simbolico, perché per la prima volta le persone con malattie mentali (o meglio: i casi meno complicati), riuscirono a guardare oltre quel muro. E poterono farlo, a loro volta, i cittadini. Fu uno dei primi passi verso quel movimento che portò, l’anno successivo, al varo della famosa legge n. 180 (che portava il nome del suo promotore, lo psichiatra Franco Basaglia) e alla conseguente abolizione degli ospedali psichiatrici. Strutture, val la pena di ricordarlo, in cui troppo spesso gli “ospiti” venivano sottoposti a pratiche violente e vessazioni di ogni genere.

Con Franco Rotelli, allievo, collaboratore ed erede di Basaglia, oggi presidente della commissione regionale sanità in Friuli Venezia Giulia, prendendo le mosse da quel lontano anniversario abbiamo rievocato quella stagione e affrontato le problematiche della 180. Il nodo è sempre il medesimo, da quarant’anni: la legge aveva affidato alle Regioni l’attuazione dei provvedimenti in materia di salute mentale, ma si è generata una difformità di trattamento. Mentre alcune amministrazioni sono state tempestive ed efficaci nell’applicarla, altre – la maggioranza – decisamente no. Rotelli, nell’ambito di www.forumsalutementale.it, una “piazza” nata nel 2003 che raccoglie associazioni, medici, familiari e politici di ispirazione basagliana, ha partecipato alla messa a punto di un disegno di legge (vedi) «per l’attuazione e lo sviluppo dei principi della 180». «Lo presenteremo all’inizio della prossima legislatura – dice Rotelli – e auspichiamo un ampio dibattito che ci aiuti a migliorarlo. Anche perché altri testi sulla stessa materia giacenti da tempo alla Camera non ci sembrano sufficientemente adeguati».

Rotelli, partiamo dall’inizio: quando ha conosciuto Franco Basaglia?

«Era il 1971, lo conobbi all’ospedale psichiatrico di Parma. Avevo letto delle cose su di lui, mi ero appena specializzato e abitavo da quelle parti. Dopo il suo arrivo tanti medici fuggivano terrorizzati da quell’ospedale, c’erano diversi posti liberi, venni assunto. L’anno successivo lavoravo a Trieste insieme a Franco»

Qual è stata la grande rivoluzione che ha portato nella psichiatria?

«Con Franco è cambiato tutto, c’è stato un rovesciamento di “paradigma”. La malattia veniva messa tra parentesi, al primo posto c’era la persona con la sua dignità. E i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue esigenze. Da allora si stava di fronte a loro su un piano di parità».

Ma gli avversari di Basaglia sostenevano che si muoveva sul piano delle ideologie e non della realtà. Per questo, dicevano, trascurò pesantemente l’aspetto della pericolosità dei malati…

«Credo che il discorso andrebbe rovesciato: era la vecchia psichiatria che attribuiva un peso esagerato alla pericolosità per poter continuare a mantenere e giustificare il suo potere. Alla fine degli anni Sessanta nei manicomi c’erano 100mila persone. Dopo il 1978 non abbiamo avuto un aumento dei reati proporzionale rispetto a questo numero. La verità è un’altra: le persone sono pericolose quando le tratti male».

“La libertà è terapeutica”: era uno degli slogan in quegli anni. Lei ci crede ancora?

«Ci credo, eccome. Solo che la libertà non possiamo darla per scontata. E’ una conquista quotidiana, non un regalo o una concessione».

Cosa non funziona nella legge 180 del 1978?

«E’ una grande legge, ma non è stata applicata del tutto. Nella maggior parte delle Regioni le cose sono state fatte poco e male con il risultato di servizi decisamente carenti in buona parte del Paese e un’enorme disparità fra i territori. Per troppe amministrazioni è stata vista solo come l’occasione per risparmiare soldi».

In che modo il vostro disegno dei legge prevede di migliorarla?

«Pensiamo innanzitutto a un rafforzamento dei servizi: i Centri di Salute mentale devono essere davvero aperti 24 ore su 24 e fornire risposte immediate. Per contro il Dipartimento di Salute Mentale, al quali i Centri fanno riferimento, non possono occuparsi della cura di un bacino di 500mila persone, ma limitarsi a un’area di 60/70mila unità. Questo, naturalmente, implica un discorso sulle coperture finanziarie: nella nostra proposta scriviamo che le risorse da destinare alla salute mentale, così da garantire prestazioni omogenee su tutto il territorio, devono costituire almeno il 5 per cento del Fondo sanitario nazionale (attualmente è impiegato il 3 per cento, ndr). Pensiamo, giusto per fare un confronto, che in Paesi come Francia e Regno Unito la percentuale è del 12 per cento. Nel nostro testo insistiamo anche su alcuni punti delicati: lo stop alla “contenzione materiale”, persone che di fatto vengono ancora legate ai letti. Si tratta di un’attività illegittima cui si fa troppo spesso ricorso, magari in modo sommerso e strisciante. Vogliamo un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) più rispettoso del cittadino, con la nomina di un garante da parte del giudice tutelare. E poi non soldi generici per le prestazioni, ma sempre più progetti individuali integrati per la singola persona. Insomma, ci piacerebbe riuscire a tradurre in buone pratiche, come già avviene in alcune, purtroppo poche, regioni, i principi della legge 180».

(da La Stampa: http://www.lastampa.it/2017/07/11/italia/cronache/quarantanni-dopo-la-basaglia-resta-una-grande-legge-ma-in-troppe-regioni-non-viene-applicata-QfpICY2ofK6m67bjdhw03N/pagina.html

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