Il 29 agosto del 1980 ci lasciava Franco Basaglia, uno dei massimi esponenti della Riforma psichiatrica e del movimento culturale e politico italiano che, nel 1978 con la legge 180 (conosciuta come “legge Basaglia”), ha messo fine alla pratica dell’internato manicomiale e alla “cultura della follia”, come politica della violenza e diritto di alienazione delle persone fragili. Con Basaglia la psichiatria entra a far parte del Sistema Sanitario Nazionale (istituito lo stesso anno della legge 180, con la legge 833 del 23 dicembre 1978) ed una nuova visione della cura si offre all’immaginario comune, e cioè la garanzia del diritto alla cura per tutti. Ma Basaglia non è solo questo, è molto di più ed ancora in pochi lo sanno. Vorrei provare a raccontarlo.

Il grande cambiamento culturale, oltre che sanitario, promosso da Basaglia, ha sancito infatti non solo la chiusura dei manicomi, rivelando le mancanze e le colpe di un sistema psichiatrico e sociale nato per curare e invece utilizzato per escludere e controllare, ma piuttosto ha promosso un’apertura delle menti, dimostrando quindi la possibilità, da parte della psichiatria e della società, di occuparsi di questa fragilità che è l’individuo, in modo diverso dalla medicalizzazione e dalla prevaricazione, e insegnando che è possibile dialogare con l’altro incomprensibile.

«Per esempio se ricevo una persona che non ha un rapporto con me perché io non capisco cosa dice, e che quindi io considero al di fuori della logica, cioè folle, ho due possibilità: o mi metto nella posizione di Kraepelin che, dopo aver passato decine di anni a catalogare le domande di queste persone, le ha classificate in sindromi psichiatriche – e questo è un modo di etichettare, di rispondere all’aggressione che ti fa il malato con la sua follia – oppure, devo considerare che cosa vuole questa persona». Basaglia, La nave che affonda, p.19, 2008

Da filosofa, prima che da psicologa, sono giunta a Basaglia attraverso Sartre e i grandi maestri della fenomenologia, e fortunatamente mi sono ritrovata in un orizzonte di senso in cui ho potuto comprendere quale dovesse essere davvero il senso della “cura”. Ho deciso quindi di conoscere e di studiare questa storia, la nostra storia, per la filosofia che ne è alla base, per i valori immensi che porta con sé e per l’ampio respiro che dona quel sapere, e cioè che è sempre possibile mantenere al centro la persona e i suoi bisogni, e che è doveroso impegnarsi affinché questo continui ad accadere. 

Parlare di Franco Basaglia per la ricorrenza dalla sua morte è per me quindi molto significativo per i motivi appena accennati, e anche perché ritengo che ancora poche persone conoscano davvero questo uomo, la sua opera e soprattutto la filosofia che è stata alla base della sua pratica. Di fatto, in questa contemporaneità sempre più anonima, la storia di una persona come Franco Basaglia non trova purtroppo il posto di rilievo che invece dovrebbe avere, così come le conquiste sociali e sanitarie che grazie a lui, e al suo gruppo di lavoro, ne sono derivate consentendo la realizzazione di una società migliore. Purtroppo, non molte persone possono riconoscere nella lotta di Basaglia attraverso le istituzioni quel cammino della psichiatria che ha permesso il progresso della nostra umanità, e che dalla violenza perpetrata sui più deboli ha portato poi alla liberazione e alla tutela della dignità delle persone sofferenti. Basaglia non si conosce perché non si studia nelle scuole e nelle università, e credo sia rilevante riflettere sulla mancanza di un’educazione in tal senso, in questo nostro tempo fatto di spazi destituiti di senso, dove l’individualismo e il protagonismo la fanno da padrone. Ritengo sia essenziale e dirimente domandarsi: perché tanta omertà? 

Perlopiù si ricorda Basaglia come il medico dei matti che ha chiuso i manicomi lasciando i malati e le loro famiglie al loro destino, in assenza di cure e con servizi carenti, senza sapere che Basaglia quei servizi non li ha mai potuti vedere, poiché è andato via molto presto, solo un anno e  mezzo dopo la legge 180, a soli 56 anni. Basaglia ha fatto molto e in pochi anni, ed è venuto a mancare troppo presto, sapendo che ciò che stava avvenendo non avrebbe dato seguito alla sua idea. Un tempo di vita breve che non gli ha permesso di andare oltre, e di continuare quell’opera che lui sapeva aver bisogno ancora di molto impegno. È importante che si apprenda come siano andate le cose, affinché le giovani e le vecchie generazioni possano riprendere il lavoro laddove è stato lasciato, assumendo ognuno la propria responsabilità rispetto ad un sistema sociale e sanitario, sempre più teso alla privatizzazione e all’esclusione delle categorie fragili dal diritto alla cura. 

Tornare a conoscere la storia e a leggere i libri che la raccontano, ascoltando le voci delle persone presenti e che possono ancora introdurci in quella storia, è stata la mia possibilità di incontro con un fenomeno culturale che ha cambiato la sorte delle nostre vite per sempre, e da cui ho attinto nella mia pratica clinica e di cui ho deciso di adoperarmi per la divulgazione. In questo tempo di imperante tecnicismo raccontare Basaglia rappresenta per me un’occasione, quella di tornare a ripensare l’individuo nel suo stato di necessità esistenziale e provando a comprenderne l’umanità e le sue espressioni, anche se sconcertanti, come qualcosa che ci appartiene nel profondo e di cui dobbiamo quindi imparare ad “aver cura”.

L’insegnamento che Basaglia accolse dai maestri fenomenologi, portando in manicomio la loro filosofia, è stato aver piena coscienza non dell’uomo malato, ma della persona in quanto vivente a cui ne va del suo essere, a prescindere dalla sua condizione di malattia, mostrando che:

«Non è sufficiente riuscire a comprendere la genesi psicologica di un determinato stato di malattia, perché non si giungerà, con i dati in tal modo ricavati, a dimostrare al malato che la sua idea della vita non ha possibilità di realizzazione». Basaglia, Scritti 1953-1980, p.52, 2017

Il merito di Basaglia, che nell’Istituto di Malattie Nervose e Mentali di Padova il prof Belloni appellava “il filosofo” per le sue letture e per la sua profonda conoscenza della filosofia, è stato quello di portare la psichiatria più vicina “alle cose stesse”, ad approssimare i significati giudicati insensati dell’esperienza vissuta, restituendo al malato il suo poter essere sé, e attestando al mondo l’importanza di portare avanti questo impegno. 

«Il punto importante è che questa battaglia abbia portato e porti un germe di contagio generale proprio per quanto riguarda il problema della liberazione di una base che vuole vivere, al di là della distinzione tra malattia e salute». Basaglia, La nave che affonda, p. 49, 2008

Basaglia aveva capito che mettere tra parentesi la malattia significava ascoltare finalmente la voce della persona e questo nuovo modo di intendere la relazione di cura ha significato che nessuna violenza potesse essere più giustificata, e nessuna considerazione obbiettivante potesse dare il diritto di decidere dell’altro, per il quale semmai bisognava avere uno sguardo di comprensione che, solo, poteva consentire di pensare il sostegno come un fatto sempre possibile al di là della situazione di gravità. Questa è stata la speranza in cui ha creduto Basaglia e questo deve essere il valore a cui tenerci nel difficile compito di saper essere-con l’altro. Come afferma lui stesso:

«La speranza deve stare in noi, come espressione delle nostre contraddizioni, perché l’altro, il malato, è uno di noi». Basaglia, Conferenze brasiliane, p.32, 2008

Bisogna però ammettere quanto sia faticoso mantenere la speranza, e considerare l’altro incomprensibile con lo sguardo che serve, soprattutto quando non ci si riconosce in quello sguardo, e per farlo penso possa essere utile riuscire a identificarsi in quella storia della follia che coinvolse molti uomini; in quella storia che non si racconta più, se non in modo travisato, inesatto e spesso volutamente contraddittorio. L’opera di un uomo come Franco Basaglia si fa prima a criticarla che a comprenderla, tali sono la complessità del suo pensiero e la concretezza della sua pratica, ma Basaglia fa eco anche se relegato al silenzio, perché è viva in noi quella fragilità a cui lui ha saputo rivolgere il suo sguardo. 

Parlare di Basaglia ai più giovani credo sia essenziale perché permette di coltivare quella disposizione esistenziale che può essere esercitata insieme, non come tecnica specialistica ma come possibilità di “saper essere nella cura”. I suoi testi aiutano a comprendere con chiarezza che una crisi è un problema umano, e che si tratta appunto di un evento che non colpisce un individuo etichettato come “malato” o “folle”, ma la persona nel suo essere spesso reificata da una società alienante, dimentica della sua singolarità e complessità di bisogni. Ritengo che questa visione possa consentire a tutti, a partire dagli operatori, di tornare ad occuparci della cura nella maniera adeguata per tutti e per ognuno, con quella sollecitudine che è prima di tutto rispetto dell’altro nella sua irriducibilità.

«Quando io parlo di cura, questa parola deve avere un significato, a partire dal soggetto di questa cura».  Basaglia, Conferenze brasiliane, p.118, 2018

Non credo che la clinica possa fare a meno di considerare i metodi che sono stati applicati in manicomio alla cosiddetta “follia”, senza correre il rischio di ricadervi, così come non ritengo possibile che le persone continuino ad ignorare l’assenza di un sistema sanitario nazionale prima di Basaglia. Quando sento dire che si dovrebbe tornare indietro ai manicomi vorrei che quelle stesse persone che lo chiedono conoscessero prima di tutto la violenza di quei posti, come anche lo stato della nostra sanità prima della Riforma, tempo in cui non era impossibile parlare di terapia e ricevere aiuto. Eludere il passato significa, di fatto, votarsi ad un oblio rischioso, quello di tornare a pratiche disumane e obiettivanti che, anziché sostenere le persone, ne eliminano completamente la singolarità e i bisogni. Di questo, e di molto altro orrore, dovremmo avvederci provando a considerare la nostra dimensione di esistenti come una condizione di profonda vulnerabilità, che può sempre tornare ad essere avversata come qualcosa di sbagliato da eliminare. Questo è già accaduto e potrebbe riaccadere, ed è proprio Basaglia a metterci in guardia dal rischio, mostrandoci la strada da seguire: 

«Dobbiamo tentare di costruire un nuovo umanesimo, dobbiamo dare una nuova forma all’uomo, dobbiamo creare presupposti perché quell’altro uomo non sia un nemico». Basaglia, Conferenze brasiliane, p.58, 2018

Già dal 1967 con il testo Che cos’è la psichiatria? Basaglia tenta il superamento delle barriere e delle divisioni, creando una spaccatura insanabile, rimuovendo l’asimmetria che da sempre divideva il malato dal sano e l’esperto dalla persona sofferente, e mostrando dunque la necessità di una dialettica fra i poli opposti della contraddizione. Un processo estremamente importante per far fronte alla vulnerabilità umana. 

«Questo equilibrio di potere è l’unica, vera forza della comunità, non più basata sul vecchio schema di autoritarismo, e sul principio di falsa condiscendenza proprio del rapporto paternalistico, ma su un piano di parità in cui il medico, scaduto dall’alto della sua precedente posizione, si trova in mezzo ai malati come semplice punto di riferimento attorno al quale si possono svolgere i primi approcci verso un rapporto interpersonale che, solo, può essere alla base di una comunità che vuol dirsi terapeutica». Basaglia, Scritti 1953-1980, p.274, 2017

Sono convinta che nella clinica questa visione sia in grado di migliorare le nostre prassi, restituendo a queste ultime un orizzonte di senso più umano, e all’operatore una dimensione “etica” e non tecnica della cura. Chiaramente si tratta di un impegno senza fine perché concerne la precarietà umana di cui dovremo sempre tener conto, avendo riguardo per le persone, a prescindere dalla loro condizione di salute o malattia. 

Come aveva capito Basaglia, quello della fragilità umana è appunto un problema filosofico, oltre che sociale e clinico; si tratta infatti di una delle questioni ultime più significative, che di fatto ci rimette tutti in cammino verso quella consapevolezza dolorosa del nostro esistere, da cui non è possibile affrancarci. Affrontare il discorso sulla sofferenza da un punto di vista filosofico, in un mondo sempre più tecnicizzato, può sembrare anacronistico, ma è invece quello che serve affinché la fragilità non scompaia dietro la generalizzazione del dato. 

Come sostenere la fragile umanità è un impegno al quale Basaglia pensa già dal suo arrivo al manicomio di Gorizia nel 1961, dove inventa una nuova opportunità di essere-con la follia riuscendo a trasformare quel luogo della invisibilità in una possibilità di vita; e questa è la virtù che mi piace sostenere ricordando la grandezza di un uomo che ha saputo credere “nel senso del possibile”. Il mio ricordo di Basaglia vuole essere un richiamo a quell’umanità che ci riguarda tutti e che, sola, può consentirci di mettere tra parentesi il pregiudizio, che da sempre ci accompagna  riguardo la differenza, e ripensare appunto il bisogno come un’opportunità per migliorare il nostro sistema sanitario, sociale e culturale. Chiaramente questo non vuol dire annullare la differenza, o non tener conto della malattia, anzi proprio Basaglia ci ricorda di non cadere in questo inganno:

«Questo non significa che non esista il diverso come fenomeno umano […]. Il problema sta proprio nella necessità di cancellare il “diverso” come se la vita non lo contenesse, e quindi la necessità di eliminare tutto ciò che può incrinare la falsa acontraddittorietà di questa facciata terza e pulita, dove tutto andrebbe bene se non ci fossero le pecore nere». Basaglia, La pratica della follia, p.73-74, 1974

In questa ricorrenza, la mia speranza è che le parole di Basaglia possano ridestare di fronte alla fragilità che noi siamo, mostrandoci il lato più vero della vita e ponendoci davanti alle necessità di costituirci come una comunità di cura, dove non siano solo i tecnici ad occuparsi della sofferenza umana. Assumersi la responsabilità di accogliere il bisogno significa non demandare il sostegno della persona che ha bisogno ad un’istituzione, o pensare di eliminare la vulnerabilità con delle metodologie specialistiche, ma anzi affrontare insieme l’impegno con disponibilità, partecipazione e dialogo. D’altra parte, come avverte lo stesso Basaglia:

«La sofferenza umana non si può eliminare, sta nella vita, è una condizione dell’uomo». Basaglia, Conferenze brasiliane, p.39, 2018 

Come ho detto, l’immensa opera che Basaglia ha costruito su quel “senso del possibile” è ancora oggi molto travisata e avversata, spesso pensata come un fatto avvenuto e concluso, ma non andato a buon fine. Ed è proprio questa la grande sventura che investe la contemporaneità, il fatto di non riconoscerci più come umanità in transito, come esistenti sempre mancanti la cui contraddizione e precarietà non potrà mai avere termine. Questa grave dimenticanza dell’esistente è venuta meno in diverse epoche in cui sono prevalsi il positivismo e la voglia di dominio, oggi di nuovo imperanti, che hanno allontanato l’individuo dalla ricerca del senso affidandolo in sorte ad una scienza che non pensa. 

«Quando ho di fronte un uomo nella sua dimensione collettiva, sociale, posso risolvere qualche problema materiale […]Parlando per assurdo, potrei alimentare tutti gli uomini, offrendo la casa tutti, creando condizioni di conforto materiale che possano soddisfare tutti. Tuttavia, il dolore che opprime l’uomo, l’angoscia di ogni giorno nella relazione con gli altri uomini, tutto questo io non posso risolverlo. Questa angoscia esistenziale fa parte dell’uomo, è una realtà, e tale relazione tra l’ordine sociale e la dimensione esistenziale rappresenta la contraddizione e l’opposizione della nostra vita». Basaglia, Conferenze brasiliane, p.59, 2018 

Molto spesso mi dico che ci vorrebbe di nuovo Basaglia per sistemare questa nostra società così anonima e indifferente, e spesso torno a chiedermi: che cosa ne penserebbe di tanto sfacelo? Una risposta esaustiva è difficile trovarla, ma giunge sempre il suo insegnamento a rispondermi: quando fai la domanda stai già provando a cambiare il sistema. 

Come esistenti, e non solo come operatori, al di là di qualsiasi distinzione di ruolo, possiamo tornare a incontrarci in questo cammino mai finito dell’ “aver cura”, provando a portare avanti quell’impegno che attenderà sempre il nostro contributo.