Da “Il Piccolo”

Le reclute di Basaglia 

Nel novembre ‘71, eravamo tanti giovani dottori a quell’inizio. Avevamo risposto alla chiamata di Basaglia che nei mesi precedenti aveva cercato ragazzi e ragazze giovani per cominciare la sua direzione a San Giovanni. Dirà tempo dopo “ non basterà il mio tempo per cambiare la testa dei vecchi psichiatri”. La Provincia ci avrebbe sostenuti con una borsa di studio di ottantamila lire mensili. A febbraio, quattro mesi dopo, la borsa non era ancora arrivata. Eravamo convocati ogni giorno da Basaglia alla riunione di fine giornata, la mitica riunione “delle cinque”. Quel giorno era  presente anche il presidente della provincia Zanetti. Delegato dagli altri aspiranti borsisti, avrei dovuto chiedere ragione della nostra paga al presidente. Dissi qualcosa, nel gergo di allora, del tipo “ Qui non c’è nessuna volontà politica di affrontare il problema della nostra sopravvivenza…”. Prima che riuscissi a finire e Zanetti a rispondermi, Basaglia mi stava già annientando, che potevo fare le valige subito, che nessuno mi aveva chiamato e che tante altre cose ancora. Zittito di brutto. Incidente chiuso.

Il mattino dopo mi chiama la signora Maria Jelercich, la caposala del reparto Q dove lavoravo: “Signor dottore, ha chiamato il direttore vuole che lei vada subito nel suo ufficio. Subito, ha detto.” Ecco, penso mi dirà che l’esperienza è chiusa e che è il caso che io tolga subito le tende. Basaglia mi accoglie col suo solito imbarazzo, mi fa sedere sulla poltroncina anni quaranta di pelle  verde sbiadito che fa parte dell’angolo salottino del suo ufficio, si siede davanti a me  e comincia a parlarmi. È molto alto, la poltroncina lo costringe a trovare posizioni che mi sembrano buffissime. Mi accorgo ora delle grandi mani che muove in continuazione accompagnando il suo parlare.  Mi dice che è finito il tempo dell’università, delle occupazioni, delle contestazioni. A Trieste è cominciata una storia, un cambiamento che lui crede possibile. Su questo vuole scommettere. Cambiare significa pazienza, lavoro quotidiano durissimo, alleanze, naturalmente anche con chi governa, capacità di stare nelle contraddizioni, accettare la realtà. Avere un’idea del cambiamento che deve dare forza a un progetto. Un progetto da condividere, anche con me naturalmente, che deve rappresentare la rotta, la strada da percorrere, senza deragliamenti, senza compromessi.   Mi parla alla fine di rivoluzione come cambiamento, cambiamento delle coscienze sottolinea, un camminamento lungo e sempre irto di ostacoli, cambiamento del nostro modo di pensare, di vedere, di attraversare la realtà. Dobbiamo sperimentare sguardi diversi. La rivoluzione ora è “la lunga marcia”. La lunga marcia attraverso le istituzioni. 

Mi rimanda al lavoro, battendomi imbarazzato la mano sulla spalla, sorridendo. È il suo modo di manifestare affetto, simpatia, vicinanza. Ma questo lo capirò dopo. Mi ritrovo fuori dalla porta confuso, mi domando se ho capito bene. È finito il mio primo vero colloquio faccia a faccia con Basaglia. Non ho detto una sola parola.

Erano i primissimi anni ’70, di recente laureato sono arrivato a Trieste, non capivo quello che stava succedendo. Tutto sembrava muoversi a doppia velocità. Ero partito da Salerno. A San Giovanni dove avevo cominciato a lavorare, Basaglia non dava tregua. Perché tanta urgenza e tanta passione mi domandavo. Da dove viene la forza di quei gesti e quelle parole che catturavano, che facevo fatica a comprendere,  che volevo fare mie. Nel corso del tempo è diventato chiaro: il lavoro quotidiano, le pratiche rischiose della libertà, le parole di Basaglia che ascoltavo alla “riunione delle 5”, invitavano a interrogarci sulla natura della malattia mentale, scoprire con coraggio l’incertezza dei fondamenti di quella scienza che aveva edificato gli ospedali psichiatrici, prodotto volumi e volumi di parole che servivano a mettere “distanza” mentre qui era la vicinanza che cercavamo.

Scoprivamo che la psichiatria non poteva farsi se non riducendo l’altro a cosa. Scoprivamo lo sguardo freddo e distante  che ogni respiro aveva ridotto a oggetto.

Quale l’eredità di Basaglia, mi chiedono oggi in tanti. Credo non si tratti di eredità, rispondo. Eredità non è la parola che sento giusta. Credo piuttosto che si tratti di una storia che non può avere fine.

Per raccontarla non posso non cominciare da una rottura, una scelta di campo, un capovolgimento: Franco Basaglia, negli anni sessanta, cominciò a parlare dei manicomi, luoghi distanti, dimenticati, invisibili, sconosciuti. I manicomi nel nostro paese erano più di novanta con centoventimila internati! 

Cominciò a svelare la loro natura di luoghi di reclusione e di violenza; le porte cominciarono ad aprirsi. La storia negata di migliaia di uomini e di donne che tornano alla banalità quotidiana delle relazioni non poteva più essere taciuta. 

Forse, pensammo, si poteva vivere senza manicomi! 

Con il passare degli anni, con la smemoratezza che ci accompagna, sembra svanita l’immagine di quella non vita di decine di migliaia di uomini e di donne condannati all’inesistenza; delle violenze delle istituzioni totali così come si erano costituite e riprodotte nel corso del tempo. 

Con Basaglia quegli uomini e quelle donne diventano cittadini e cittadine. Il valore politico di questo passaggio avvierà un processo luminoso e difficilissimo. 

Diventano persone, finirà l’indegnità dell’istituzione. Possono pretendere cura e guarigione e trattamenti che facciano attenzione prima di tutto alla libertà e alla dignità.

Sono soggetti singolari ognuno con la sua storia e possono cominciare a pensare di riappropriarsi della loro vita.

Il mestiere della cura può cominciare.