806598_20150115_16di Fabrizio Starace (*)

Un commento al racconto di Di Petta (vedi il racconto)

Il compito delle scienze sociali, secondo Domenico De Masi, è “essere moleste”, evidenziando nel rassicurante riprodursi della realtà contraddizioni e incompatibilità che possono risultare fastidiose, a volte spiacevoli, ma hanno il merito di riportarci al senso delle cose che facciamo e alla distanza tra queste e i valori in cui crediamo. In Notti di ordinaria psichiatria, Gilberto Di Petta ha avuto la straordinaria capacità di rappresentare, in tre storie di emergenza notturna, l’emergenza reale che vive il sistema della Salute Mentale nel nostro Paese, la frustrazione e la mancanza di speranza che accomuna operatori e utenti, l’uso residuale e contenitivo cui la psichiatria sembra essere relegata. Ma Gilberto va oltre la rassegnata descrizione delle incoerenze di sistema e pone una serie di quesiti, che potrebbero essere, per chi ne ha ruolo e responsabilità, i punti di un ideale programma di riorganizzazione dei servizi.Provo a coglierne alcuni.

Nessuna delle persone che hanno costellato quella notte in SPDC era seguito dai Servizi Territoriali. Ciononostante, tutti avevano una terapia psicofarmacologica prescritta da centri specialistici pubblici o privati convenzionati. Dunque, il bisogno, la sofferenza, si era manifestata ma la domanda di assistenza non era stata coltadai Servizi Territoriali (o lo era stata, ma senza una reale presa in carico). Senza voler demonizzare la funzione del privato convenzionato (su cui pure occorrerebbe una riflessione seria, a partire dalla verifica di efficacia degli interventi e dal rapporto costo/beneficio degli stessi) questo segnala che il Servizio Pubblico non attua quella funzione di regia, di committenza e di verifica che attiene alle proprie responsabilità. Nella migliore delle ipotesi, si tratta di un sistema che dispone di risorse che non sono in relazione tra loro. Tocca all’utente o al familiare districarsi nel labirinto di sigle, strutture, approcci specialistici, e spesso di spendere di tasca propria per ottenere ciò cui si ha diritto.

E ancora: “La sezione ospedaliera – scrive Di Petta – diventa la prima linea”. Ecco un altro paradosso dell’attuale situazione dei Servizi, non solo in Campania. Il polo che esprime la maggiore intensità di assistenza sanitaria diventa il riferimento abituale per problemi di ogni genere. E’ perfino superfluo argomentare sulle cause che generano questi flussi, ma mi piace cogliere l’analogia molto attuale con la medicina generale. Sul piano organizzativo, la migliore risposta ad un uso improprio del Pronto Soccorso ospedaliero è considerata una maggiore responsabilizzazione dei medici di medicina generale ed il loro aggregarsi in strutture territoriali (le Case della Salute) per garantire una presenza sulle 12 ore, con la possibilità in alcuni casi di accogliere anche brevi degenze, e con il servizio di continuità assistenziale a rispondere alle urgenze notturne. Dunque: prossimità territoriale, continuità assistenziale, possibilità di risposta nelle 24 ore. Ma non erano queste le caratteristiche che avrebbero dovuto assumere i Centri di Salute Mentale?

Un altro aspetto che emerge più volte nel racconto è il riduzionismo nell’approccio terapeutico, il “bagno psicofarmacologico”, sedativo, contenitivo, di cui parla Di Petta. Non c’è oggi psichiatra, anche il più acceso organicista, che non sia disposto ad ammettere che le possibilità di prognosi favorevole si accrescono esponenzialmente se l’approccio terapeutico è ispirato all’integrazione degli interventi farmacologici, psicoterapici e sociali, questi ultimi estesi alla rete relazionale prossima dell’utente.  Se a ciò aggiungiamo le consolidate evidenze sugli effetti iatrogeni per nulla trascurabili che agli psicofarmaci – specie quando assunti a lungo termine – vengono attribuiti, non si comprende come sia eticamente e deontologicamente sostenibile un intervento fondato esclusivamente sui farmaci.

Ciò che più mi ha colpito, tuttavia, è stata la descrizione del ruolo che utenti e familiariassumono nei confronti del ricovero: da un lato passività e sopportazione, dall’altro la ricerca di sollievo, sia pur temporaneo, ad una pena che si considera ineluttabile ed invincibile. Nell’evocare e sostenere questo sentimento,il ricovero denuncia il suo fallimento prima ancora di essere stato realizzato. C’è un’antinomia reale tra questo modo di interpretare il ricorso al ricovero ospedaliero e l’idea che l’intervento, per essere terapeutico, debba tendere a restituire a utente e familiari il controllo negoziale sulla propria esistenza; e la capacità dei Servizi di coinvolgere attivamente le persone assistite nei progetti di vita che li riguardano; e il fatto insomma di essere soggetto o oggetto di un processo di cura.

Voglio cogliere, infine, il richiamo che Di Petta rivolge indirettamente all’accademia, alle Scuole di Specializzazione, chiedendosi quale e quanta formazione essi ricevano per comprendere e orientare le opportunità che una crisi, nel suo disvelamento di un campo di possibilità, offre. Anche in questo caso la sollecitazione rinvia a domande di portata più ampia, che ci interrogano sulla reale adeguatezza dei contenuti didattici che il sistema formativo trasmette rispettoal “portafoglio” di competenze oggi indispensabili per lavorare nella rete dei servizi sociosanitari di comunità. Ma come perseguire questa coerenza di fini in contesti che rimangono separati dal sistema sanitario e sociale, senza una reale possibilità di integrazione nella salute mentale territoriale?

Mi accorgo solo ora di non aver commentato l’accenno critico che Gilberto rivolge alla sanità Campana e alle promesse più che decennali rivolte a cittadini e operatori, puntualmente disattese. La speranza è che le cose cambino, certo, ma perché ciò avvenga è necessario essere speranza e non semplicemente averla. La notte della psichiatria va illuminata dalla luce che ciascuno sente di poter accendere, anche a costo diessere molesto, ossia – letteralmente -di “rappresentare qualcosa che opprime, che è difficile da sopportare”. Come ha fatto Di Petta.

(*)Direttore Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche, AUSL Modena, Presidente, Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica (SIEP)

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