Gent. On. Paola Boldrini,

abbiamo letto con sgomento e con preoccupazione l’articolo pubblicato nel quotidiano “La Nuova Ferrara” del 28 agosto 2015 in cui viene riportato un Suo rilevante interesse per la c.d. “Manovra Ferrarese” – da praticarsi nei confroni di “una persona in stato d’agitazione” per evitare che possa diventare “pericolosa a sé e agli altri”, anche in caso di attuazione di un t.s.o. – e un Suo apprezzamento così notevole da proporla in sede legislativa come modello di intervento a livello nazionale, in qualche modo cogente.

Comprendiamo che rarissimamente può accadere che diventi inevitabile un intervento forzato in situazioni complicate e drammatiche nelle quali non si intravvedono altre possibilità o soluzioni, situazioni contorte e bloccate per vari motivi – non sempre e non tutti riconducibili alla sofferenza o alla specifictà della persona – ma si tratta di eccezioni nelle eccezioni, per dare una immagine più che una misura, una volta su un miliardo o più di contatti quotidiani tra un Servizio e le persone che vi si rivolgono, anche più raro.

Quando e se accade un episodio così duro e intrinsecamente inaccettabile, è sempre una sconfitta e un fallimento per un Servizio ed è obbligo – professionale, culturale, etico, giuridico – avviare una riflessione di tutto il Servizio, di tutte le persone che erano coinvolte nella relazione con la persona a cui è stata praticata una siffatta violenza, per comprendere come e perchè si è giunti a una tale criticità e se era veramente inevitabile un intervento di tale portata e di tale gravità, se non vi erano in quel momento e in quel contesto altre vie di uscite, magari più prudenti e rispettose, attendiste senza danno per alcuno.

La responsabilità di un Servizio implica un continuo lavoro di ricerca e di verifica della qualità degli interventi, delle relazioni, dei progetti di salute nei confronti di ogni singola persona e un lavoro di ricerca e di riconoscimento degli eventuali errori commessi, e questo sia per onestà intellettuale sia per evitare di ripetere errori, ovviamente involontari e dai quali nessuno è esente, nella prospettiva del miglioramento continuo della qualità.

E’ ovvio che un episodio di violenza così drammatico ed estremo costituisce per qualunque Servizio un “evento sentinella” che impone una attenta riflessione e una rivalutazione della relazione e degli interventi nel rapporto con la singola persona, ma anche eventualmente di modelli e di stili di comportamento e di intervento del Servizio più in generale.

Infatti è chiaro che un intervento forzato di tale portata costituisce innanzittto una violazione del diritto della libertà e della inviolabilità della persona e può essere attuato soltanto nella situazione prevista dall’art. 54 C.P., legittimabile e giustificabile a posteriori e dopo verifica e valutazione della sussistenza dei presupposti. Vi è una grande esposizione del Servizio che può essere sottoposto a verifica giudiziaria, ma prima ancora professionale ed etica.

Un intervento di tale natura costituisce sempre e comunque un trauma per la persona che lo subisce e pregiudica il futuro rapporto di “cura” e le relazioni con gli operatori/operatrici del Servizio così che è necessario un lavoro di riparazione e di ricostruzione del rapporto che – se effettuato adeguatamente – può avvenire anche con esiti positivi, ma che in alcuni casi può pregiudicare per sempre la relazione con il Servizio, strutturandosi una relazione tra la persona e il Servizio di tipo persecutorio che porta a un avvitamento disperato e devastante della relazione stessa e della salute della persona e a una difficoltà/impossibilità per il Servizio di adempiere al proprio mandato.

In particolare se la persona è già conosciuta dal Servizio, ma comunque in ogni caso, un intervento di tale tipo provoca un grave trauma anche negli operatori/operatrici i/le quali precipitano una lacerante crisi di identità in riferimento al loro ruolo, al loro mandato, alla loro professionalità sia personalmente sia in quanto componenti di un gruppo di lavoro.

E’ chiaro che episodi di tale tipo costituiscono una frattura violenta e lacerante di una relazione che per lo più si era costituita nel tempo ed era cresciuta con importanti coinvolgimenti personali anche da parte degli operatori/operatrici i/le quali, solitamente, lavorano nell’ambito della Salute Mentale per una scelta positiva di vita e con sensibilità e attenzione per la sofferenza.

Anche il gruppo di lavoro richiede un aiuto per elaborare e superare un trauma così intenso e tale da snaturare la propria identità personale e professionale. Tuttavia, se tale aiuto viene meno, è sempre immanente e grande il rischio di una sorta di desensibilizzazione e di abitudine.

Viene perduta la capacità di riconoscere sia il problema sotto un profilo giuridico-giudiziario sia sotto il profilo del mandato e della qualità della relazione Servizio/cittadini.

Il quadro dei diritti e giuridico è chiaro e non è stato messo in discussione ma, al contrario, è in continua evoluzione positiva, essendo ormai più che evidente che nella relazione Servizi di Salute Mentale/cittadini sono in gioco fondamentali questioni che riguardano la Costituzione, i diritti fondamentali di cittadinanza, il Diritto Penale e Civile, la società, la cultura, e – più in generale e senza enfasi – la democrazia e il futuro delle nuove generazioni.

Certamente può essere obiettato che se nel recente drammatico episodio del T.S.O. di Torino fosse stato messo in atto un intervento tecnicamente “corretto” e “non nocivo – non letale“ non sarebbe stata provocata la morte di una persona, ma l’episodio di Torino pone drammaticamente tutte le questioni a monte ovvero se e perchè era stato proposto e disposto un t.s.o. in quella specifica situazione con quella persona e perchè era stato attuato in quel modo, letale.

Nel caso di Torino non ci sono alibi: non poteva essere evocato “lo stato di agitazione” né la “pericolosità per sé e per gli altri” né il disturbo sociale né il rifiuto da parte della comunità.

Nulla di tutto questo e senza ombra di dubbi, con rara dovizia di testimonianze della comunità. Emerge soltanto la brutalità e la gratuità di un intervento non necessario ma ritenuto “normale” e secondo consuetudine, percepito come legittimo e giustificato in nome della “cura” della “malattia mentale”.

E’ questo che preoccupa maggiormente.

Anche se proposta con le migliori intenzioni per evitare un male più grande, la codificazione di un intervento, intrinsecamente illegittimo e da evitare, porta inevitabilmente a una sua legittimazione e l’eccezionalità assoluta sfuma progressivamente in una consuetudinarietà anche al di fuori di delle situazioni eccezionali fino a diventare abitudine, perdendo di vista ogni riferimento giuridico, normativo, culturale e professionale, in una sorta di desensibilizzazione generalizzata dei Servizi e della collettività.

Purtroppo rapidamente, stante la situazione attuale in Italia, la legittimazione di tali modello di intervento ristruttura completamente il quadro e il contesto del mandato di un Servizio di Salute Mentale – la promozione della Salute Mentale della persona, delle famiglie, delle comunità e della società – e lo snatura.

Per le dinamiche complesse e spesso contorte che ne seguono, è altissimo il rischio che tale modalità di intervento diventi rapidamente un obbligo cogente che già a priori inchioda i Servizi a pratiche ottuse, repressive e persecutorie, e riproduce stereotipi ciechi quanto irreali, che nulla hanno a che fare con la sofferenza psichica delle persone.

Certamente è necessaria la formazione degli operatori per intervenire in situazioni difficili e per migliorare la capacità di sciogliere positivamente situazioni che sembrano senza via di uscita, evitando di provocare danni, ma la formazione è innanzitutto formazione al diritto, al mandato, al ruolo, alla cultura, alla professionalità, alla promozione e alla costruzione di percorsi di salute mentale nella comunità, in sistemi istituzionali complessi all’interno di quadro di diritti e doveri che toccano direttamente le questioni fondamentali della democrazia.

Alcuni di noi hanno lavorato con le Forze dell’Ordine e hanno organizzato e condotto percorsi di formazione con le stesse, ma gli obiettivi erano sempre quelli appena citati e gli esiti sempre molto positivi, evidenziandosi che le persone che lavorano nelle Forze dell’Ordine spesso costituiscono una risorsa naturale fondamentale e hanno grande esperienza nello sciogliere in modo positivo e civile situazioni anche molto difficili e che apparentemente sembrano senza via di uscita.

Ma sono anche persone molto sensibili e attente ai contenuti e ai valori del lavoro per la Salute Mentale e della democrazia. Questa è la nostra consolidata esperienza.

Formazione per le situazioni di criticità deve essere fatta, ma nella proporzione e nel contesto corretto e adeguato.

Ma, se i contatti c.d. “critici e difficili” sono, figurativamente, uno su un miliardo, la formazione per le criticità può essere un centesimo della formazione per il lavoro di Salute Mentale che è indirizzata alla costruzione di relazioni e contesti positivi, in modo che non si creino o riproducano situazioni di criticità?

La criticità non scaturisce soltanto dalla criticità della persona o da una sua presunta pericolosità, ma da relazioni molto più complesse con il mondo istituzionale che non può non essere oggetto di indagine e che è suscettibile di cambiamenti sostanziali.

“Se si può, si deve”, era il titolo della prima e unica Conferenza Nazionale per la Salute Mentale messa in atto a Roma nel 2001.

On. Paola Boldrini, per tutto questo il “Forum Salute Mentale” Le chiede di sospendere la Sua iniziativa e La invita al prossimo incontro che si terrà prossimamente in sede e data che sarà nostra cura cominicarLe tempestivamente.

Per il Forum Salute Mentale

Mario Novello

vice presidente Conferenza Basaglia

Write A Comment