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La lettera aperta di Marco Cavallo al Presidente Nichi Vendola (e anche a tutti i Presidenti delle Regioni), firmata da Peppe Dell’Acqua e Giovanna Del Giudice e pubblicata su Repubblica Bari online, ha determinato approvazioni, discussioni, tensioni e conflitti. Il sito del forum vuole accogliere i diversi contributi che seguiranno e qui sotto riporta subito la lettera.

“Caro Presidente,
Marco Cavallo, nostro comune amico, ha insistito molto perché ti scrivessimo. Scrivere a te è un pretesto per parlare a tutti gli altri presidenti. Siamo stati di recente a Foggia e abbiamo parlato con tante persone. C’era anche il cavallino azzurro di Latiano. I due si sono detti cose. Da allora i legami che già avevamo con gli amici di Bari, Massafra, Manfredonia, Monte Sant’Angelo, Taranto, Laterza, Lecce, Ginosa, Brindisi, Martina Franca, Troia, Lucera, e tanti altri luoghi sono diventati più intensi. E allora eccoci qua. Non potevamo far passare settembre. Lo scorso 3 settembre è passato un anno da quando Paola Labriola ci ha lasciati. La morte tragica di una compagna ci costrinse a pensare, a chiamarci, a dire, a trovare parole, a rincorrere la speranza che quella morte così dolorosa potesse collocarsi in un orizzonte di senso: “…che le cose ora, così evidenti nella loro miseria e insensatezza, cambino”. Le primissime reazioni furono banali e superficiali. Tutti invocarono “sicurezza”, controlli, ghetti. Il sindaco di Bari, Michele Emiliano, promise un’ordinanza per impegnare i vigili urbani, in coppia, a presidiare l’ingresso di quei luoghi, che solo ora giungevano alla sua attenzione. L’assessore regionale alla sanità Elena Gentile s’impegnò a ordinare alle Asl, a Bari in particolare e subito, di acquisire un servizio di vigilanza con guardie armate. Promise con altrettanta prontezza di istituire a livello regionale l’obbligo per le operatrici della salute mentale di frequentare corsi di difesa personale, con costo a carico della regione. Avrebbe anche assicurato nei turni di lavoro “la promiscuità di genere fra gli operatori”. Marco Cavallo divenne irrequieto. Voleva partire. Venire a parlare con te. Ci convincemmo che bisognava aspettare, dare un po’ di tempo, perché tutti potessero respirare e riflettere. Niente. Di lì a poco i medici psichiatri pugliesi aderenti alla CGIL proposero e realizzarono corsi per la gestione dei “malati violenti e pericolosi” con la benedizione della regione. La Società italiana di psichiatria annunciò, per manifestare la sua preoccupazione e la sua solidarietà, la prima Giornata Nazionale sulla Salute e la Sicurezza degli operatori in psichiatria. Nella lettera d’invito del presidente le parole ricorrenti sono violenza e aggressività dei “malati di mente pericolosi”. Il convegno si terrà a Bari il 24 ottobre 2014. In memoria di Paola Labriola!
Era accaduto un fatto molto grave. Avremmo voluto sentire altre parole. Le politiche per la salute mentale nella regione Puglia in quel momento (e ancora oggi) facevano molto discutere e lo stato dei servizi di salute mentale era oggetto di denunce preoccupate di operatori, familiari, cittadini attivi. Era in atto una riduzione drastica delle risorse di fatto disponibili e l’assenza di una qualsiasi sensata ipotesi strategica, più grave ancora della mancanza di risorse, rendeva il quadro ancora più drammatico. Nei nostri viaggi pugliesi con Marco Cavallo abbiamo potuto constatare la miseria dei centri di salute mentale, che ora si riducono anche di numero, la pesantezza dei servizi di diagnosi e cura. Il ricorso all’ospedale psichiatrico giudiziario è rilevante. Le risorse non sufficienti di per sé, sono impegnate per più dei 3⁄4 in cosiddette
strutture residenziali. Risorse cospicue bloccate, operatori, tanti giovani, costretti a lavori insensati e degradanti, produzione di cronicità. Di fatto di esclusione. Impossibilità soltanto a immaginare una speranza. Ma di questo più volte ti abbiamo detto. Tutti hanno preferito parlare di
sicurezza, di pericolosità, di violenza. Ancora di muri, di luoghi dove ricacciare un’umanità dolente. Rispolverando immagini e paradigmi che
tu conosci e sai bene quanto danno e sofferenza hanno causato. Non amo cercare spiegazioni riduttive. I fatti che oggi conosciamo sono banali nel loro tragico accadere. Sappiamo che nelle circostanze attuali vediamo sempre più persone che non ricevono risposte adeguate alla complessità del loro bisogno, ma solo risposte definite dagli stessi servizi che le erogano. Tutti fanno qualcosa di parziale, il loro dovere,
ma le persone restano con il loro problema. Vengono cioè “passate” da un servizio all’altro, in un circuito infernale, una sorta di “manicomio
diffuso”. Voglio dire che Vincenzo Poliseno non è un uomo, di per sé, socialmente pericoloso, è un marginale ed emarginato, fracassato dalla
sua storia, che ha trovato sempre risposte parziali, luoghi respingenti, che avrebbero dovuto essere i luoghi deputati a incontrarlo. Nel centro
di salute mentale, una delle stazioni di quell’infernale circuito, quella mattina, Paola Labriola l’ha accolto. Sapeva bene che il suo impegno
doveva favorire l’incontro e la cultura dell’accoglienza. Sicuramente il centro era sguarnito ma non perché mancasse una guardia giurata a sorvegliarlo, come hanno detto in molti. Paola era sola a fare accoglienza, un gesto e una pratica che pretendono presenze diverse, parole, confusione, relazioni. Quando cominciammo, ci piacque pensare al centro di salute mentale come a un mercato, il mercato di Marrakesh. I luoghi della “psichiatria”, che io mi ostino a chiamare i luoghi della cura, vanno perdendo dovunque questa vocazione. Rischiano di diventare ambulatori freddi, sale di attesa, medicherie per la somministrazione di farmaci: la malattia, la diagnosi e non la persona, con la colpevole prepotenza delle psichiatrie “scientifiche” e la disattenzione delle amministrazioni regionali. Tutte. Paola ha accolto la persona, prima di definire la malattia, etichettare quel bisogno, in quella negoziazione accogliente che ciascuno di noi ha fatto mille volte e che quella mattina è stata tragicamente fatale. Caro presidente, i servizi stanno drammaticamente perdendo la cultura e le pratiche dell’accoglienza. “La persona non la malattia” dicemmo e i servizi vedono diagnosi, sintomi, comportamenti. Sempre più le risposte si frammentano. I farmaci finiscono per dominare incontrastati il campo. E così facendo i luoghi della cura s’impoveriscono, s’indeboliscono, si svuotano.
Paola gridava nel deserto. Proprio così presidente. Quei luoghi che abbiamo pensato come soglia. Soglia su cui incontrarsi, né dentro né fuori. Tutti col passaporto, tutti senza passaporto. Soglie dove abitare con le nostre diversità, le nostre in/definite identità, la nostra comune infelicità. Quei luoghi oggi finiscono per essere collocati nel deserto, il deserto dei tartari, con il tenente Drogo in attesa angosciosa del nemico.
Luoghi che sono diventati trincee fredde e inospitali dove mandiamo infermieri, educatori, psichiatri, psicologi, i nostri giovani più generosi,
mal vestiti e male armati a respingere, a rinviare, a catturare. Giovani che generosamente vogliono disporsi all’accoglienza, a mettere in campo il loro sapere, la loro competenza, la loro curiosità. La violenza si sconfigge accogliendo, non con telecamere, guardie giurate e campanelli d’allarme. Abbiamo ben capito che la malattia mentale non ha niente a che fare con la pericolosità. Quando le persone sono riconosciute per la loro singolare storia, la pericolosità svanisce e si scopre quanto l’abbandono generi rischi e pericoli. In Italia abbiamo fatto a meno dei manicomi e, malgrado le nere previsioni degli uccelli del malaugurio, non abbiamo visto alcun aumento dei suicidi e ancor meno la crescita generalizzata della criminalità legata alla malattia mentale. Le persone chiedono aiuto bisbigliando. I servizi nei territori devono saper ascoltare, avere antenne sensibilissime. L’ascolto mancato genera l’urlo, la richiesta disperata e in una spirale infinita telecamere, porte chiuse, solitudini, deserti. «Ridurremo i centri non per tagliare i servizi ma per implementarli, per fare in modo che dentro vi sia più personale». Fu il commento più sconcertante. La Puglia aveva già avviato una politica di riordino preoccupante dell’organizzazione della salute mentale: l’accorpamento dei servizi cui si riferiva l’assessore era un punto forte di quel piano: si sarebbe dovuto passare, per esempio, da tre centri di salute mentale, che coprono una popolazione di 100/150mila abitanti a uno solo. In quell’unico centro aumenterà il personale, disse l’assessore. Non disse che spariranno gli altri due, gli abitanti triplicheranno, i territori diverranno sconosciuti. Devo tornare sui numeri e ripetermi. La Puglia spende due terzi delle risorse per la salute mentale per istituti, strutture e comunità sedicenti terapeutiche. Un’enormità di risorse buttate via in luoghi dove le persone vengono depositate, ormai già inutili alla vita, in attesa che la morte arrivi quanto prima. Sono attivissimi, e sempre pieni, dieci servizi psichiatrici ospedalieri. Tutti con le porte blindate. In nove di questi si pratica la contenzione meccanica: sono luoghi di esercizio e di scuola della violenza. Avrei voluto ascoltare una parola su questi luoghi blindati dove le persone, – i nostri concittadini, per i quali il sindaco Emiliano emette l’ordinanza di trattamento sanitario obbligatorio – urlano inascoltati la loro disperazione legati a letti luridi e indecenti. Sarebbe stato un bel modo per onorare l’inaccettabile morte di Paola, che per questo ha sempre lottato. Succedono cose analoghe in almeno 19 regioni su venti, dalla Lombardia alla Sicilia. Basterebbe poco perché questi quotidiani crimini di pace non accadessero. Basterebbe solo parlarne e costruire consapevolezza e desiderio di cambiamento. Dalla tua regione e dal suo presidente che parla con Marco Cavallo e sempre ci commuove, ci saremmo aspettati qualcosa di diverso. Ho sentito invece voci autorevoli dire che queste persone, i malati di mente, vanno riportate in ospedale. Il vero luogo della cura, in nome della sicurezza. Quanta tristezza…
Come vedi, caro Presidente, in realtà ti stiamo chiedendo aiuto.
Abbiamo percorso 4500 chilometri e Marco Cavallo è entrato maestoso nei sei “manicomi criminali” del nostro paese. La persistenza di questi
luoghi e le testimonianze dolenti degli internati sono il segno non più trascurabile dello stato infelice dei servizi di salute mentale. Ormai
sull’orlo del baratro come recita una convocazione a un convegno di Caritas. Se si ragionasse e si volesse aprire occhi e orecchie, si capirebbe
che non è appropriato che le leggi e le politiche di salute mentale siano determinate dalle preoccupazioni connesse al rischio di comportamenti
violenti piuttosto che dalla necessità di disporre di risorse e trattamenti terapeutici e riabilitativi efficaci nei contesti reali, nelle relazioni. Servono servizi diffusi, in grado di incontrare le persone e i loro bisogni, nei luoghi della vita quotidiana. Non sono più pensabili luoghi separati. Dietro le mura nascono mostri terribili e devastanti, sempre. Sicurezza è “abitare la soglia”, riempire di vita i servizi, dare faticosamente significato alla nostra vita. Tutti, nessuno escluso. Don Andrea Gallo che pure conosceva bene Marco Cavallo e tante volte è venuto a Trieste a parlare con lui nel parco di San Giovanni, in mezzo alle rose, ci ha lasciato queste semplici parole: « Io vedo che, quando allargo le braccia, i muri cadono…». Sicuri che queste cose ti appartengano, ti stiamo chiedendo di aiutarci.
Dopo Gorizia e Trieste, abbiamo bisogno della seconda rivoluzione. Marco Cavallo è pronto e già scalpita. Conosce servizi accoglienti, associazioni di “matti” che parlano e rivendicano il loro diritto, decine di migliaia di operatori attenti, generosi, competenti che permettono
malgrado tutto risalite inaspettate, restituzione di diritti, di soggettività, di storie, di appartenenza. Ci sono tanti servizi ospedalieri che hanno porte aperte e non ricorrono mai, dico mai, alla contenzione. Cooperative dove davvero si aprono strade a quella straordinaria possibilità che la stagione del cambiamento ha guadagnato per tutti. Migliaia di psichiatri e tantissimi giovani, malgrado l’evidente povertà dei mezzi e le miserie culturali, si adoperano quotidianamente a dare senso al Dipartimento di salute mentale. L’urgenza del cambiamento che Basaglia avvertiva drammaticamente e la sua forza di credere nell’utopia della realtà è ciò che continua a sorprenderci. La possibilità di alimentare utopie, desideri, sogni sembra ci sia data solo a patto che se ne rimandi la realizzazione in un altrove o in angusti spazi privati. Oggi sembra prevalere l’ingombro dell’immutabile dato di fatto: intoccabili gli assetti istituzionali, evidenti i limiti delle risorse, certe e concrete le cause della malattia, indiscutibile il bisogno di sicurezza e di controllo, pericolosa e minacciosa la presenza di gruppi e soggetti diversi. Insomma, l’ineluttabilità e l’immutabilità del dato. Di una realtà che dobbiamo accettare così com’è, di cui non possiamo sospettare l’incertezza e che non può essere cambiata. Basaglia, con la sua ostinata testimonianza, ha reso evidente che l’utopia può stare nel nostro quotidiano, può diventare realtà. È per questo che Marco Cavallo e con noi una moltitudine ricordano Paola Labriola.”

Peppe Dell’Acqua e Giovanna Del Giudice
Trieste, settembre 2014

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