Par122878011 marzo, undicesimo giorno.

di Anita Eusebi

“Il reo non viene inviato in carcere perché non può comprendere ciò che significa pena e rieducazione; viene allora inviato in manicomio giudiziario, dove sotto forma di cura espia in realtà una pena che capisce ancora meno”, scriveva Basaglia. Nell’orrenda realtà degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ogni cosa diviene assolutamente provvisoria e il tempo trascorre in un’agonia senza alcuna speranza, quale eterno parcheggio nel dimenticatoio della società. Chiaro segno di come funzionano, o meglio non funzionano, le cose.

È bene ricordare che sulla base della pericolosità sociale sono state internate persone per aver commesso reati di poco conto, cosiddetti bagatellari, reati per i quali persone ‘sane’ non sarebbero neanche mai state arrestate. Persone che si ritrovano a fare i conti con un impianto giuridico-legislativo secondo cui la connessione tra malattia mentale e pericolosità sociale, peraltro priva di contenuto scientifico, è il presupposto per la legittimazione di sanzioni penali quali le misure di sicurezza, che spesso si protraggono per anni e anni, se non per sempre.

Parliamo di “una situazione che rende il nostro Paese indegno della Costituzione, e della stessa 180”, come ha ripetuto più volte Stefano Cecconi, portavoce di StopOPG, “la cura e la presa in carico di queste persone si può e si deve attuare”. E invece abbandonati dallo Stato e soli si ritrovano spesso anche i familiari, gli educatori, gli psicologi, gli infermieri, gli assistenti sociali, gli stessi psichiatri che sono chiamati a seguire e a ‘curare’ gli internati. È improrogabile il bisogno di investire le risorse economiche e umane e orientare le pratiche per la creazione di percorsi alternativi e assistenziali a livello territoriale, nelle singole regioni.

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