di Girolamo Digilio.

Mi sarei aspettato che una lettera degli Psichiatri della SIP, e altre sigle, al Ministro della Salute (vedi lettera) avesse dovuto denunciare le gravi insufficienze dei Servizi di salute mentale nel nostro Paese e richiedere urgenti e adeguati interventi per metterli in grado di assolvere ai loro compiti istituzionali di cura e di presa in carico globale delle persone con disagio psichico-sofferenza mentale. Come è ben noto, infatti, la mancata presa in carico nei servizi, l’abbandono e la conseguente istituzionalizzazione sono la principale causa di cronicizzazione e di disabilità di molte persone che, se arruolate in adeguati programmi terapeutico-riabilitativi, potrebbero, o avrebbero potuto, recuperare, invece, una buona qualità di vita e un soddisfacente reinserimento sociale e lavorativo. Ciò comporta, fra l’altro, costi enormi per la collettività se si considera che almeno 80.000 persone sono oggi ricoverate in strutture di varia tipologia e di netta impronta neo-manicomiale (case di cura, comunità terapeutiche e cosiddette “residenze” private, da non confondere con le case-famiglia) che assorbono almeno il 70% della spesa totale per la salute mentale.

Questa insufficienza dei servizi di comunità, molti dei quali sono ridotti a puri e semplici “dispensari” di psicofarmaci, è anche la prima causa della incapacità di molti DSM ad assumere la gestione di progetti personalizzati di cura e di riabilitazione di persone prima e dopo il loro invio in OPG, con particolare riguardo a quelle che, come osserva giustamente Benevelli, sono trattenute negli OPG stessi attraverso reiterate proroghe proprio perché il Dsm non è in grado di assumerli in carico.

È pur vero che non mancano nel nostro Paese strutture di eccellenza, che sopravvivono però in mezzo agli stenti con grande difficoltà e sacrificio degli operatori.

Stupisce che una parte degli psichiatri italiani, anziché reclamare a gran voce e fattivamente mobilitarsi per la normalizzazione del funzionamento dei servizi nei quali pure sono costretti ad operare in condizioni di grave disagio e discarsa soddisfazione professionale, si arrocchino in una chiusura riduzionistica e, si direbbe corporativa, di difesa di un recinto zeppo di nominalismi e di etichette di dubbio valore scientifico richiamandosi, fra l’altro, a concetti tuttora fortemente dibattuti come quello della pericolosità sociale (di cui al Codice Rocco) e al ventilato spettro delle “pericolose conseguenze sulla incolumità degli utenti, dei familiari, operatori e cittadini”. Non per nulla alcuni dei sottoscrittori della lettera avevano invocato a suo tempo la presenza di vigilantes e guardie giurate nei CSM e in altre strutture per la salute mentale.

Cordiali saluti a tutti

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