Negli ultimi anni, la cura della salute mentale ha fatto progressi significativi, sia in termini di servizi disponibili che di migliore sensibilità sociale sul tema. In particolare, c’è stato un significativo cambiamento nella percezione collettiva del benessere psicologico, che ha portato ad una progressiva normalizzazione dell’aiuto clinico, soprattutto nel caso di sintomatologie che non rientrano in quadri diagnostici complessi. Oggi, chiedere supporto ad uno psicologo è diventato più comune rispetto al passato e meno soggetto a stigmatizzazione sociale, venendo perlopiù visto come un gesto di consapevolezza. Tuttavia, tale apertura sembra riferirsi solo a una parte della sofferenza psichica, quella considerata, per così dire, “gestibile”. In casi clinici progressivamente più gravi, lo stigma è ancora profondamente radicato e tende ad influire in modo rilevante sulla condizione sociale dei pazienti, anche in rapporto alle scelte terapeutiche che vengono adottate. Differentemente da quanto avviene nel caso di patologie fisiche, quando il problema riguarda la salute mentale entrano infatti in gioco fattori differenti che tendono a complicare il percorso di cura, che viene percepita non solo come trattamento medico ma anche come stigmatizzazione sociale. Questo sembra valido specialmente quando è richiesto un intervento psichiatrico, che non sembra essere normalizzato al pari di quello psicologico, o un supporto di tipo farmacologico. L’uso di psicofarmaci, soprattutto, sembra spesso accompagnarsi al timore di alcuni pazienti di essere associati a condizioni psichiatriche più gravi. È un meccanismo paradossale per cui la società trasmette l’idea che essere “matto” sia qualcosa di profondamente negativo e, dal momento che alcuni medicinali vengono associati a questa etichetta, chi ne fa uso finisce per interiorizzare lo stesso pregiudizio che teme di subire. Gli effetti sono che, anche nel caso di patologie meno complesse, il paziente può essere reticente nell’assumere farmaci, o può farlo provando vergogna, per il timore di essere visto – o di vedersi – attraverso quello stesso preconcetto. In questa ottica, i pregiudizi sugli psicofarmaci riflettono i pregiudizi sulla malattia mentale, ancora molto diffusi e radicati in una complessità di fattori culturali. Questa connotazione negativa dipende, tra le altre cose, dal fatto che il disturbo mentale viene tendenzialmente associato a elementi come pericolosità o instabilità permanente. Si tratta di convinzioni stigmatizzate in realtà alimentate soprattutto da generalizzazioni e da rappresentazioni mediatiche sensazionalistiche, che continuano a rafforzare l’idea della malattia intesa come minaccia,  piuttosto che come condizione medica curabile. Negli ultimi trent’anni, la psichiatria ha inoltre fatto importanti progressi, portando a servizi territoriali maggiormente strutturati, protocolli terapeutici più personalizzati, disponibilità di farmaci più mirati. Il migliore accesso alle cure ha fatto sì che molti pazienti con disturbi anche gravi potessero essere seguiti meglio, riducendo conseguentemente anche il rischio eventuale che si potessero verificare possibili episodi di comportamento disorganizzato che, probabilmente, sono quelli che in passato hanno contribuito a rafforzare la percezione di “pericolosità”. I pazienti che sono accompagnati nel loro percorso di cura sono infatti tendenzialmente più consapevoli dei propri bisogni e dei propri limiti. Insomma, negli ultimi anni, quelli che hanno ridotto la probabilità di star male sono forse proprio “i matti”. Se chi convive con una condizione psichiatrica importante (o ne ha sofferto e poi è guarito) ha avuto accesso a cure più efficaci, allo stesso tempo è aumentato anche, complessivamente, il numero di psicofarmaci prescritti per diversi disturbi— in particolare antidepressivi e ansiolitici. Questo fenomeno riflette almeno due tendenze: da un lato, una maggiore disponibilità delle persone a chiedere aiuto, dall’altro un possibile ricorso troppo rapido o generalizzato al trattamento farmacologico anche nei casi in cui non sarebbe necessariamente richiesto.  Se infatti esiste un pregiudizio rispetto agli psicofarmaci, è altresì vero che sussiste il rischio che vi si faccia ricorso anche in casi in cui approcci non farmacologici – come la psicoterapia o il sostegno psicosociale – potrebbero essere più indicati. Il pregiudizio, infatti, non riguarda solo i pazienti, ma può condizionare anche i medici. Se la decisione clinica di prescrivere psicofarmaci si basa su convinzioni radicate — ad esempio sull’idea che certi disturbi siano per forza cronici, o che non si possa guarire o che comportino un pericolo permanente — si rischia, tra l’altro, che queste percezioni influenzino la gestione terapeutica nel lungo periodo. Un medico che consideri tali farmaci come indispensabili per tutta la vita potrebbe ad esempio, anche in presenza di effetti collaterali rilevanti o di problematiche fisiche concomitanti (come disturbi cardiovascolari), non prendere in considerazione un percorso di sospensione o riduzione graduale della terapia. In questo caso il problema non risiede più nella stigmatizzazione del farmaco, ma nel fatto che questo potrebbe non essere adeguato o risultare dannoso per il paziente. Siamo così in una situazione paradossale, in cui da una parte vi sono persone che potrebbero trarre beneficio da un trattamento farmacologico lo evitano o lo associano a vergogna per paura del giudizio sociale, e dall’altra si assiste a un uso crescente di psicofarmaci in contesti che forse richiederebbero strumenti diversi. La risposta è, probabilmente, nell’educazione — a tutti i livelli. Se promuovere la consapevolezza sui disturbi psichici può facilitare l’accesso a cure adeguate e favorire il rispetto verso chi ne è coinvolto, questo tema riguarda l’intera società. Una maggiore consapevolezza collettiva e un approccio più rispettoso e informato alla malattia mentale possono contribuire a smantellare progressivamente quei pregiudizi che ancora oggi ostacolano i percorsi terapeutici, per motivi differenti. Allo stesso tempo, oggi è ancor più  fondamentale investire nella formazione continua degli operatori sanitari, affinché i trattamenti, qualunque sia la gravità o il tipo di disturbo, siano prescritti in modo responsabile, evitando automatismi o semplificazioni dannose. Superare i pregiudizi significa permettere ai pazienti un accesso alle cure adeguato e scevro da conseguenze sociali. E significa, soprattutto, riconoscere che la salute mentale è parte integrante della salute complessiva e che il diritto a curarsi deve essere garantito in modo dignitoso.

da: L’ Altravoce, 23 giugno 2025