Io sogno una psicologia per tuttə, una disciplina accessibile, inclusiva, in cui ogni persona possa sentirsi libera dai pregiudizi, dagli ostacoli economici e sociali che troppo spesso ne limitano l’accesso.
La salute mentale non dovrebbe essere un privilegio, ma un diritto.
Eppure, nella realtà attuale, la psicoterapia si configura come un lusso per pochi, piuttosto che come un servizio essenziale per la collettività.
Da studente di psicologia, mi trovo a riflettere su quanto una terapia efficace e continuativa sia purtroppo elitaria. Il costo delle sedute, la necessità di un percorso terapeutico duraturo, l’assenza di un adeguato supporto pubblico rendono le psicoterapie inaccessibili a molte persone. Questo si traduce in una società che soffre in silenzio, che reprime il disagio invece di affrontarlo, che medicalizza la sofferenza piuttosto che comprenderla e rielaborarla collettivamente.
Anche il percorso per diventare psicoterapeuta è spesso un privilegio. Le scuole di specializzazione hanno costi proibitivi, che escludono chi non dispone di risorse economiche adeguate. Il rischio è che la psicoterapia rimanga un sapere per pochi, erogato da pochi, e fruito solo da chi può permetterselo.
Studiando Maxwell Jones, Thomas Adeoye Lambo e Franco Basaglia, mi è sorta una domanda: perché non ripensare la terapia in un’ottica comunitaria, restituendole una dimensione collettiva? Perché non creare comunità terapeutiche di quartiere, spazi dove ogni cittadino possa essere parte attiva del benessere psicologico proprio e altrui?
Un’alternativa possibile?
Le comunità terapeutiche non sono una semplice utopia: hanno radici storiche profonde. Maxwell Jones, pioniere della comunità terapeutica, immaginava luoghi dove il paziente non fosse un soggetto passivo della cura, ma un partecipante attivo nella propria guarigione. Attraverso l’autogestione, la responsabilità condivisa e il coinvolgimento diretto, Jones ribaltava il tradizionale rapporto tra terapeuta e paziente, proponendo un modello di cura basato sulla reciprocità e sulla partecipazione.
Thomas Adeoye Lambo, innovatore nell’ambito della psichiatria transculturale. Nei suoi studi in Nigeria, ha dimostrato come il benessere mentale non possa essere separato dal contesto sociale e culturale in cui è inserito l’individuo. La sua esperienza ha evidenziato l’importanza di integrare la comunità nel processo terapeutico, valorizzando il ruolo della famiglia, del vicinato e della rete sociale nell’elaborazione e comprensione della sofferenza.
E poi c’è Franco Basaglia, che ha portato avanti una rivoluzione radicale nel modo di intendere la malattia mentale. Il suo lavoro ha mostrato come il manicomio non fosse solo un’istituzione di cura, ma un luogo di esclusione sociale. Con la legge 180 del 1978, Basaglia ha dimostrato che è possibile superare la logica dell’istituzionalizzazione e restituire dignità alle persone considerate “malate”, ridando loro voce, autonomia e un ruolo attivo nella società.
Allora mi sono chiesto, viste le esperienze passate, se fosse possibile pensare a una comunità terapeutica di quartiere, ovvero creare spazi intermedi, terre di mezzo tra l’inclusione e l’esclusione, dove la sofferenza psicologica non venga stigmatizzata, ma riconosciuta e affrontata in modo collettivo. La malattia mentale, così come il disagio sociale, non sono mai fenomeni individuali: nascono e si sviluppano all’interno di dinamiche collettive e, proprio per questo, dovrebbero essere affrontate attraverso una risposta gruppale.
Bisogna perciò ripensare al concetto di salute mentale. Viviamo in una società che fatica ad accettare la diversità, che tende a normalizzare alcuni disagi e escluderne altri, ma soprattutto che tende ad anestetizzare le soggettività. Basaglia diceva: “La società per dirsi civile dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia”. Oggi, la normalità è un costrutto imposto: chi si adegua rientra nel sistema, chi devia è escluso. Ma chi decide cosa è normale? E se fosse proprio questa normalità preparata a essere il problema?
In un mondo dove l’individualismo esasperato ha frammentato i legami sociali, la creazione di piccole comunità terapeutiche di quartiere potrebbe essere una risposta concreta alla crescente solitudine e alienazione.
Il Covid ha accentuato questa disgregazione: il vicino di casa è diventato una minaccia, l’Altro è stato percepito come un pericolo, il senso di collettività si è scisso dietro le barriere dell’isolamento e della diffidenza. Ma proprio da questa frattura può nascere un’opportunità, una spinta per ricostruire nuovi spazi di incontro e condivisione. È tempo di ribaltare questa logica, di tornare a guardarci come comunità di dialogo e ascolto, capaci di sostenerci a vicenda e di creare insieme un tessuto sociale più accogliente e solidale. La comunità terapeutica di quartiere potrebbe diventare il luogo in cui ripensare il concetto di cura, non più come un’esperienza individuale e privata, ma come un processo collettivo, in cui ognuno può dare e ricevere aiuto.
Incontrarsi, ascoltarsi, parlare, costruire reti di fiducia. Questi sono i primi passi per recuperare un senso di appartenenza, per trasformare la fragilità in forza e la solitudine in connessione. Creare qualcosa insieme significa ridare valore ai legami umani, immaginare nuovi modi di stare nel mondo, recuperare il senso autentico della comunità, dove nessuno si senta escluso e dove il benessere dell’uno diventi la risorsa dell’altro.
L’utopia di queste comunità terapeutiche è il loro farsi società, proprio lì dove la società tende a sgretolarsi e a generare anomia. La loro funzione non è solo terapeutica, ma trasformativa: ricostruire un tessuto sociale in cui la salute mentale sia vista come un bene comune, e non come una questione privata.
In fondo, l’utopia non è un sogno irrealizzabile, ma un orizzonte possibile. Thomas More, nella sua di “Utopia”, immaginava una società basata sulla cooperazione, dove il benessere collettivo era il fine ultimo dell’organizzazione sociale. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di ripensare la psicologia in questa direzione: non più solo una pratica clinica individuale, ma un movimento sociale, un atto di resistenza contro l’omologazione e l’isolamento.
Forse è giunto il momento di riprendere il filo interrotto di esperienze come quelle di Basaglia, Jones e Lambo e di riportare la terapia nelle mani della comunità. Perché il benessere mentale non può essere un lusso per pochi, ma una responsabilità di tutti e per tutti.
Alla fine, questi sono solo i pensieri di uno studente di psicologia, riflessioni nate tra i libri e il desiderio di un mondo più giusto. Forse resteranno idee, forse si perderanno tra le tante utopie rimaste inascoltate. Ma, in fondo, è bello credere in qualcosa. È bello pensare che immaginare un’alternativa sia il primo passo per realizzarla. E se anche queste parole non cambieranno il mondo, almeno avranno provato a sognarlo in modo diverso.
Bibliografia:
Basaglia, Franco. L’utopia della realtà. Torino: Einaudi, 1979.
Beneduce, Roberto. Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità. Roma: Edizioni Città Aperta, 2006.
Berardi, Franco “Bifo”. Disertate. Milano: Timeo, 2023.
Guattari, Félix. Caosmosi. Napoli: Orthotes, 2024.
More, Thomas. Utopia. Milano: Mondadori, 2018.