In reparto_1Come al solito mi tocca suonare perché mi venga aperta quell’orrenda porta verdognola. Dall’altra parte qualcuno urla con un tono straziato e  acuto. Come al solito, un rumore di chiavi mi preannuncia l’arrivo di un infermiere. Apre uno spiraglio, guardando prima indietro che nessuno arrivi.

“Sì?” Mi fa con uno sguardo fra il sospettoso ed il curioso.

Vede molti giovani entrare in quei corridoi, ma non spesso la mia faccia.

“Sono uno studente, devo fare un tirocinio con il professor D.” rispondo io, cercando di sorridere alla cattiva sorte che ha portato in quel posto molte persone prima di me e per motivi ben peggiori.

Come fa sempre, l’infermiere dal fare gentile si scosta e mi fa passare aderendo alla porta, e volge lo sguardo verso altre verdi porte da cui spuntano volti segnati da un sonno senza riposo e puzzo di urina. Camminando verso il fondo del corridoi, dimenticandomi per un attimo del luogo in cui mi trovo, provo a pensare a cosa vorrebbe dire specializzarsi qui.

La risposta la trovo incrociando gli occhi spenti di un pallido signore alla mia destra. “Ce l’ha delle penne, dottore?”. Bene, penso io: neanche ho il camice addosso (sì, qui si porta ancora il camice, come in troppi posti in Italia) e già qualcuno mi categorizza. La divisione Malato-Medico è nella mente delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale, penso.

“Guardi, ce l’ho nella borsa, se mi dà un attimo gliela porto signore…?” gli chiedo.

“Ah, non mi chiami signore, dottore! Io non sono un signore!” ribatte, con voce rotta dalla stanchezza ed appena velata dal ricordo di quella che poteva essere una spensieratezza di bambino.

“Ed io non sono dottore”, gli rispondo con un sorriso. “A cosa le serve la penna?”.

Spiazzato dal mio fare non sbrigativo, il volto del signore dagli occhi spenti mi sembra ringiovanisca di colpo di vent’anni. Guardandolo bene, questo signore magro, con pochi capelli neri sulla fronte non deve avere più di cinquant’anni, quando prima sembrava un anziano prostrato dall’età. “Sono un pittore, vorrei disegnare, sono due settimane che sono ricoverato qua dentro e sono chiuso a chiave e mio fratello non mi porta né un vestito né una cintura, mi sono urinato addosso per sbaglio tre giorni fa e non posso cambiarmi, mi faccio la doccia e sono già sporco, voglio disegnare, viene lei a farmi la visita dottore così le disegno la casa dove abito con mia mamma in via XXX”. Il signore che prima mi era parso così timido e malsicuro ora mi investe con un flusso di parole difficilmente controllabile, e mi fa piacere ascoltarlo. Probabilmente la sua testa stava esplodendo di pensieri, compressi come Atena in Zeus, e la divina potenza creatrice che conservava, di solito controllata a forza ed a stento in una immaginaria camicia manicomiale, poteva finalmente esprimersi.

Di certo il colloquio di pochi minuti fatto con lo specializzando di turno non basta a questo artista.

“Un attimo per favore, arrivo appena posso” gli dico, convinto di poter fare io il colloquio con lui. E’ la prima volta che frequento dagli uomini, ma lo sguardo intristito di questo signore mi segnala che la prassi del promettere: “Dopo” da parte del personale della Corsia donne è comune anche al pianterreno. Nella sua fantasia, non tornerò. Sarà deluso, come sempre, da quando ha avuto la sventura di ammalarsi nella mente e non nel fegato, nell’addome o negli occhi. La Salute Mentale per lui non esiste, non è mai esistita. Nessuno è mai venuto a trovarlo nei suoi luoghi di vita: nessuno ha mai avuto il tempo per lui. Non ha niente: neppure una penna per esprimere chi sia. Chi non ha, non è.

Doriano, uno specializzando

Genova, “repartino di psichiatria”, gennaio 2013

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