debrakaneRecovery

Di Allegra Carboni

Anche negli Stati Uniti c’è stato qualche lodevole tentativo di mettere in discussione il modello manicomiale e le modalità con cui viene affrontato il disturbo mentale, qualche esperienza che ha cercato silenziosamente di capovolgere l’oggetto dell’attenzione e di spostarlo dalla malattia alla persona. Penso per esempio a Soteria, modello di trattamento proposto dallo psichiatra Loren Mosher, specializzato nello studio della schizofrenia. Si tratta forse di uno dei primi progetti concreti di recovery che vedono luce negli Stati Uniti: niente farmaci e nemmeno ospedalizzazione, bensì attenzioni e relazioni. Progetti come Soteria sono però mosche bianche, casi eccezionalmente rari che si discostano da situazioni ordinarie in cui coloro che non possono permettersi di pagare le visite in cliniche psichiatriche private e si recano nei centri di salute mentale pubblici si ritrovano intrappolati in code e liste d’attesa composte da centinaia di altre persone, sono costretti ad aspettare mesi per parlare con un solo psichiatra a servizio di tutti, ricevono per lo più prescrizioni su prescrizioni di farmaci, spesso si cronicizzano e buona parte si ritrova per strada. Negli Stati Uniti la concezione prevalente della malattia mentale è poco discosta dall’immagine che ne fornisce la scienza e questa prossimità a sua volta non dista molto dal rischio di psichiatrizzazione delle neuroscienze, che invece si allontana progressivamente dal racconto dell’esperienza del disturbo mentale che Basaglia meglio di chiunque altro ha delineato. Un cambiamento istituzionale è necessariamente anche culturale, perché impatta sulle culture psichiatriche preesistenti, determina una svolta nella considerazione delle persone con disturbo mentale e invita a spostare l’attenzione, a guardare da un’altra parte. Nel 2002 Courtenay M. Harding, psichiatra, già docente alla Columbia University di New York, scriveva sul New York Times che la maggior parte degli americani e gli psichiatri stessi non si rendono conto che molte persone (la maggior parte) affette da schizofrenia si riprendono (recover, per dirlo come lei). Harding si chiede perché non sono stati istituiti sistemi di cura che incoraggiano le persone con schizofrenia a riprendere in mano le loro vite. Studi condotti in Vermont su pazienti definiti hopeless, senza speranza, hanno dimostrato che i soli trattamenti farmacologici sono insufficienti e inefficaci se non affiancanti da ragionati e coraggiosi programmi riabilitativi mirati a fornire un aiuto nella gestione della vita quotidiana e da una crociata contro i pregiudizi, lo stigma, la discriminazione e la povertà che impregnano il tessuto sociale. Tra i fattori che secondo Harding emergono come ingredienti principali per la recovery non ci sono potenti neurolettici d’avanguardia, bensì una casa, un lavoro, degli amici e l’integrazione nella comunità, oltre alla speranza, al riappreso ottimismo e all’autosufficienza. In breve: i determinanti sociali delle salute.

Negli Stati Uniti vengono condotte ogni anno moltissime ricerche in tema di salute mentale, più che in qualunque altro posto nel mondo. Sembra però che gli studi si muovano su un binario unico, senza possibilità di interscambio, perché le cure restano per lo più nel caos. Le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale continuano a vivere nello stigma e nel pregiudizio che alberga negli occhi di chi guarda e che nel migliore dei casi si manifesta attraverso un generalizzato senso di apatia e indifferenza, mentre nel peggiore causa allontanamento. Le persone hanno smesso di porsi qualunque tipo di domanda.

Nell’immagine: Debra Kane, assistente sociale di Arthur Fleck / Warner Bros

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