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di Pier Aldo Rovatti.

Un grande cavallo azzurro di cartapesta è dunque partito da Trieste mercoledì su un camion, ieri era a Torino nell’Aula magna del campus universitario, da lì si è spostato a Genova per sostare in mattinata presso le gradinate di Palazzo Ducale e recarsi nel pomeriggio di oggi nel Salone della Fiera. E poi subito a Quarto all’ex manicomio, e avanti in un viaggio dal sapore quasi epico: imbarco a Livorno alla volta di Palermo, quindi a Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Secondigliano, Napoli, Roma, L’Aquila, Montelupo Fiorentino, Firenze, Reggio Emilia, e ancora su a Castiglione delle Stiviere, Limbiate e infine Milano, dove il viaggio si concluderà il 25 novembre. Questo cavallo di nome Marco a Trieste tutti lo conoscono fin da quel giorno straordinariamente festoso del 1973 in cui uscì – non senza fatica data la sua mole – dal parco-manicomio di San Giovanni e percorse la città, simbolo palpabile di liberazione e di libertà. Ma si è fatto conoscere anche nel mondo intero, dovunque i malati di mente, o supposti tali, hanno reclamato i propri diritti a essere cittadini come gli altri. È diventato quasi un mito, si è molto scritto e parlato di lui a partire da quando Giuliano Scabia e Vittorio Basaglia l’hanno ideato e costruito insieme ai degenti. Non è certo invecchiato da allora (anche i simboli – come si sa – possono appassire). L’impresa che adesso sta compiendo, con l’impegno di un’infinità di associazioni, sembra una vera e propria sfida ai tempi che corrono, alla pigrizia dilagante e agli stanchi rituali della politica attuale. In Italia i manicomi sono stati chiusi con la legge 180 voluta da Franco Basaglia, esistono però ancora alcuni manicomi criminali: una sopravvivenza che rappresenta una grande ferita. Anch’essi dovrebbero sparire, così si è deciso, tuttavia si rimanda, forse accadrà ad aprile 2014, i finanziamenti – cospicui – sarebbero pronti. Ci sono però dubbi e resta un enorme nodo. È facile prevedere che possano nascere con questi soldi nuove isole di contenimento, altri piccoli manicomi giudiziari, tanti mini Opg. Perché non spenderli per dar vita a Centri di salute mentali aperti 24 ore? Il nodo che non si scioglie o non si vuole sciogliere è quello della pericolosità sociale, che sopravvive come un minaccioso macigno, eredità di un passato cupo. Ecco perché il cavallo è partito: per spiegare le sue ragioni ai cittadini, per bussare alla porta degli Opg ancora attivi, per entrare materialmente nelle università (a Napoli, dentro l’Aula magna di Giurisprudenza), per andare a Montecitorio e a Palazzo Madama, per parlare con i terremotati. In origine, nella sua pancia, i “matti” di San Giovanni avevano messo i loro messaggi di sofferenza e speranza, ora questa pancia può di nuovo riempirsi di esigenze e desideri, come sta infatti accadendo. I simboli, quando vengono fatti vivere dai bisogni e dall’entusiasmo della gente, possono risultare più potenti di ogni politica, e forse smuovere davvero le cose. L’utopia del cavallo azzurro non correrà certo il rischio di venire spettacolarizzata poiché l’impatto, pur giocoso, è duro, colpisce la sensibilità di ciascuno. Il cavallo porta un messaggio che non si può mandar giù come un bicchier d’acqua. Quando, l’altra mattina in piazza Verdi, sotto la sferza della bora, lo psichiatra Peppe Dell’Acqua e Stefano Cecconi del comitato StopOpg hanno presentato ai triestini l’inedita iniziativa, accolta da messaggi autorevoli fino a quello del presidente Napolitano, in un’atmosfera di colori e canti, eccolo arrivare, le grand cheval bleu, che era appena uscito da San Giovanni e aveva percorso le vie della città. Senza testa. L’impatto con un ramo insolente gliela aveva mozzata. Un simbolo nel simbolo? Sì, ma lui la testa può pure perderla, in qualche modo deve perderla per essere ancora più libero e per poterla subito ritrovare. Ma noi, che vogliamo avere sempre la testa sulle spalle, come stiamo usandola? E i politici, dove hanno messo la loro testa? Pare difficile che lo scontro con la stranezza intelligente di Marco Cavallo non lasci ovunque tracce, dei soprassalti, qualche incrinatura nell’ipocrisia galoppante di chi fa troppo spesso finta di non vedere

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